Ciò che è successo alle piratesse dopo la cattura vi lascerà senza parole

Quali possibilità aveva una donna in un’aula di tribunale navale dove persino la legge era scritta da uomini convinti che la pirateria fosse innaturale in una donna? La risposta, come rivela freddamente la storia, era quasi nessuna. Le piratesse catturate ricevevano raramente misericordia. Nei secoli XVII e XVIII, la cosiddetta età d’oro della pirateria, i tribunali dell’ammiragliato britannico mostravano poca tolleranza per la pirateria di qualsiasi tipo, ma le imputate di sesso femminile erano viste come doppiamente trasgressive: avevano violato non solo la legge imperiale, ma anche le norme di genere profondamente radicate nell’ordine sociale.
I processi si svolgevano in tribunali navali improvvisati, spesso tenuti in colonie come la Giamaica o New Providence. Questi tribunali operavano senza giurie e gli esiti erano tipicamente predeterminati. Il processo legale era rapido ma non privo di teatralità. Venivano raccolte testimonianze di capitani di navi, ufficiali di marina e, a volte, marinai spaventati che temevano la propria associazione con la pirateria. Gli accusati avevano pochi diritti legali.
Anne Bonny e Mary Read, due delle piratesse più famose della storia, furono processate nel 1720 a Spanish Town, in Giamaica. Secondo il verbale ufficiale del tribunale, quando Bonny fu condannata a morte, rispose aspramente al suo amante Calico Jack: “Se avessi combattuto come un uomo, non avresti dovuto essere impiccato come un cane”. La loro difesa fu la gravidanza, nota come “implorare per il ventre”: era una delle poche protezioni legali concesse alle donne. Nel caso di Bonny e Read funzionò temporaneamente, ma la maggior parte delle piratesse non condivise la loro fortuna. Molte affrontarono i loro verdetti in silenzio, sapendo che il tribunale le aveva già giudicate colpevoli molto prima che parlassero.
Impiccate all’Execution Dock per pirateria, mentre il fiume scorreva silenzioso oltre Wapping, le grida della folla frantumavano la calma del mattino. Qui, nel famigerato Execution Dock di Londra, innumerevoli pirati, uomini e donne, trovarono la loro fine, penzolando dalle forche proprio sopra le acque torbide del Tamigi. Fu qui che l’Impero Britannico diede un macabro esempio della pirateria, e le piratesse, sebbene rare, non fecero eccezione. Secondo il diritto marittimo britannico, la pirateria era un reato capitale. Il Piracy Act del 1698, approvato sotto il re Guglielmo III, chiariva che ogni persona che avesse commesso tale reato avrebbe subito la pena di morte. A differenza delle esecuzioni sulla terraferma, queste impiccagioni venivano eseguite dall’Ammiragliato e il sito scelto, Execution Dock, fungeva da simbolo: i pirati sarebbero morti con la marea che un tempo aveva dato loro la libertà.
Le donne colpevoli di pirateria venivano condannate con la stessa definitività degli uomini. Le esecuzioni seguivano un crudele rituale: i condannati venivano prelevati dalla prigione di Newgate, fatti sfilare per Londra in un carro sotto scorta armata e scherniti dalla folla. Una volta a Wapping, venivano fatti stare sotto il patibolo, a volte con un cappio già stretto intorno al collo. Non venivano fatti cadere con un lungo volo per garantire una morte rapida; invece, la caduta breve causava una strangolamento prolungato, un metodo noto come “la danza del maresciallo”, poiché il corpo si contraeva grottescamente prima di immobilizzarsi.
Sebbene le esecuzioni di piratesse fossero meno numerose, non erano meno brutali. Mary Critchett, una donna americana che si era unita a un equipaggio di detenuti evasi diventati pirati nel 1729, fu catturata vicino alla Virginia e processata a Williamsburg. Dichiarata colpevole di pirateria, fu condannata a morte e impiccata senza clamore e senza indugio. Nessuna richiesta di gravidanza la salvò. Queste esecuzioni pubbliche non avevano solo lo scopo di punire, ma di terrorizzare. I corpi dei peggiori trasgressori venivano lasciati appesi finché tre maree non li avessero sommersi, una punizione chiamata “gibbiting”. Sebbene fosse più comune per i pirati maschi, la minaccia stessa era un messaggio per tutti: la pirateria non sarebbe stata perdonata, indipendentemente dal genere. All’ombra del patibolo, le piratesse venivano ridotte da leggende a lezioni, esempi sacrificati per sostenere l’impero e l’ordine.
Frustate davanti alla folla prima della corda, molte piratesse sentirono la frusta. La fustigazione, una punizione antica e lancinante, era usata frequentemente dalle autorità navali e dai governatori coloniali per infliggere umiliazione pubblica e agonia fisica ai pirati catturati. Per le donne, questa punizione portava un ulteriore livello di spettacolo: i loro corpi diventavano strumenti di avvertimento e ci si aspettava che la folla imparasse attraverso la loro sofferenza. La fustigazione veniva tipicamente somministrata con il “gatto a nove code”, una brutale frusta di corde annodate capace di lacerare la carne a ogni colpo. Le sentenze potevano variare da una dozzina di frustate a oltre cento, a seconda della gravità del reato e della decisione del tribunale. La punizione veniva eseguita pubblicamente, spesso sui moli o fuori dai cancelli della prigione, dove i cittadini, compresi donne e bambini, si radunavano per assistere allo spettacolo.
Nel 1720, Anne Bonny e Mary Read, dopo la loro cattura da parte delle autorità giamaicane, furono riferite essere tenute in condizioni deplorevoli e sottoposte a trattamenti duri anche prima del processo. Sebbene non vi siano registrazioni dirette di fustigazione usata su di loro durante la prigionia, le piratesse in altre colonie, come quelle catturate al largo delle coste delle colonie americane o delle Indie Occidentali, venivano regolarmente fustigate come parte della loro condanna o per estorcere confessioni. Per le autorità navali, la fustigazione delle piratesse serviva a due scopi: deterrenza e degradazione. Le donne che avevano osato comandare o combattere a bordo delle navi venivano umiliate davanti agli occhi del pubblico, con il loro sangue che si mescolava all’aria salmastra e ai ciottoli. Queste punizioni non riguardavano solo la giustizia; riguardavano il controllo, e lo spettacolo del dolore garantiva che il messaggio arrivasse ben oltre il patibolo.
Forzate al concubinato o alla schiavitù, non tutte le piratesse catturate venivano condotte al patibolo. In alcuni casi, specialmente nei porti coloniali dei Caraibi, dell’Africa occidentale e delle Americhe, le donne non venivano giustiziate ma costrette a vite di concubinato, lavoro forzato o schiavitù. Tuttavia, le prove dirette di questo destino specificamente per le piratesse sono scarse. Gli storici riconoscono che, sebbene la pirateria fosse un dominio dominato dagli uomini, le donne coinvolte potevano incontrare una vasta gamma di finali a seconda della loro nazionalità, razza, classe e della discrezione delle autorità coloniali. Nelle colonie spagnole e portoghesi, dove i confini tra pirateria, guerra di corsa e schiavitù erano spesso sfumati, le donne catturate a bordo di navi pirata, specialmente quelle di origine africana o indigena, venivano talvolta vendute in schiavitù indipendentemente dal loro status di membri dell’equipaggio o prigioniere.
I registri d’archivio di Portobello e Cartagena durante la fine del XVII secolo descrivono donne prelevate da navi pirata e trattate come bottino di guerra. Inoltre, le donne nere e di razza mista trovate a bordo dei vascelli venivano spesso presunte schiave; in tali casi, venivano assorbite nelle economie delle piantagioni o tenute come domestiche e concubine da funzionari coloniali o mercanti. I registri raramente distinguono tra piratesse e altre donne trovate sulle navi catturate, rendendo difficile tracciare linee precise, ma la pratica della servitù forzata era diffusa. Ciò che sappiamo è che per molte donne la cattura non significava un’esecuzione rapida, ma la scomparsa in case, piantagioni o stive di navi, private di identità, storia e riconoscimento: una cancellazione silenziosa registrata non nei verdetti, ma nel silenzio.
Lasciate morire su navi prigione, per alcune piratesse catturate la morte non arrivava rapidamente al patibolo; arrivava lentamente, silenziosamente e lontano dalla vista, a bordo delle carcasse marcescenti delle navi prigione. Questi carceri galleggianti, ancorati al largo delle coste coloniali o dei porti britannici, non erano mai stati progettati per una prolungata detenzione umana, eppure divennero luoghi di detenzione per pirati, ribelli e coloro considerati nemici della corona, comprese a volte le donne. Sebbene i registri dettagliati di piratesse morte specificamente su navi prigione siano limitati, il contesto più ampio è innegabile: le donne catturate erano spesso confinate nelle stesse condizioni brutali degli uomini.
Nel XVIII secolo, con l’aumento della popolazione carceraria e il sovraffollamento delle prigioni terrestri, la Marina britannica e le autorità coloniali ricorsero a navi da guerra dismesse. Questi vascelli, privati delle vele e lasciati marcire nei porti, erano ormeggiati in luoghi come Portsmouth, Plymouth e Kingston, in Giamaica. Le condizioni a bordo di queste navi erano orrende. I prigionieri erano incatenati sottocoperta in stive anguste, buie e non ventilate. Malattie come tifo, dissenteria e vaiolo si diffondevano rapidamente. Il cibo era scarso e spesso avariato. Le donne su queste navi erano doppiamente vulnerabili: oltre alla fame e alla malattia, molte subivano sfruttamento e gravi maltrattamenti, incluse forme di abuso da parte di guardie o marinai, sebbene ciò venisse raramente registrato formalmente. Prive di diritti e di riconoscimento, venivano spesso del tutto omesse dai registri. Su questi ponti silenziosi, la storia non ha registrato esecuzioni; ha registrato assenze, e in quell’assenza il destino di molte piratesse è stato segnato.
Dimenticate non per caso, ma per scelta, le loro punizioni non erano solo sentenze; erano strumenti di paura, potere di genere e controllo imperiale. Il destino delle piratesse rivela quanto profondamente il mondo marittimo temesse le donne che lo sfidavano. Queste storie riecheggiano ancora nel silenzio delle navi prigione e nelle ombre dei patiboli. Cosa dice la loro cancellazione dalla storia riguardo al potere, alla giustizia e a chi viene ricordato? Come scrisse l’antico storico romano Tacito: “Più corrotta è la repubblica, più numerose sono le leggi”.