L’Ombra del Destino: Il Canto di Fenrir e il Crepuscolo degli Dei

L’Ombra del Destino: Il Canto di Fenrir e il Crepuscolo degli Dei

Nelle viscere della grotta sotterranea di Járnviðr, la Foresta di Ferro, dove la luce del sole non osava mai penetrare e l’aria sapeva di ruggine e sangue antico, nacque ciò che gli dei avrebbero temuto più della morte stessa. Non era un semplice predatore, né una bestia comune della terra. Era il figlio del caos, il primogenito di Loki, il dio astuto, e della gigantessa Angrboða, colei che porta il dolore. Il suo nome era Fenrir, e fin dal primo respiro, il suo destino fu intrecciato alle radici di Yggdrasil, l’albero del mondo, come un veleno pronto a scorrere nelle vene dell’universo.

Inizialmente, Fenrir non era che un cucciolo, seppur di dimensioni prodigiose. Quando gli dei di Asgard lo portarono tra le loro mura dorate, sperando di poter domare la tempesta che cresceva in lui, solo Týr, il dio della guerra e del coraggio, ebbe il fegato di avvicinarsi. Gli altri dei guardavano quel cucciolo di lupo con un misto di curiosità e terrore strisciante. Le profezie delle Norne erano state chiare: i figli di Loki avrebbero portato la rovina. Ma vedere quella creatura giocare tra i pilastri del Valhalla rendeva difficile credere che un giorno le sue fauci avrebbero toccato il cielo e la terra contemporaneamente. Tuttavia, Fenrir non cresceva come gli altri esseri. Ogni giorno che passava, la sua stazza raddoppiava, e con essa la sua intelligenza malevola e la sua fame insaziabile. I suoi occhi non erano quelli di un animale, ma specchi d’oro che riflettevano la fine di ogni cosa.

Gli dei osservavano con ansia crescente mentre il lupo diventava una montagna di muscoli e pelo grigio, una forza della natura che non conosceva legge. La paura iniziò a serpeggiare tra i banchetti degli Aesir. Odino, il Padre di Tutto, colui che aveva sacrificato un occhio per la saggezza, vedeva nel lupo non solo una minaccia fisica, ma l’incarnazione del Ragnarök. Decisero quindi che Fenrir doveva essere incatenato, non per punizione, ma per la sopravvivenza stessa del cosmo. Ma come si può imprigionare l’infinito? Come si può legare colui che è nato per spezzare ogni legame?

La prima catena che gli dei forgiarono fu chiamata Lædingr. Era una costruzione massiccia, fatta del ferro più resistente delle fucine divine. Con un sorriso falso e parole mielate, gli dei sfidarono Fenrir, dicendogli che la sua forza era leggendaria e che volevano vedere se fosse capace di spezzare quel vincolo. Il lupo, pieno di orgoglio e desideroso di dimostrare la sua superiorità, accettò la sfida. Si lasciò legare, sentendo il freddo metallo contro la pelle. Ma con un semplice movimento, quasi un sospiro dei suoi muscoli possenti, Lædingr andò in frantumi come se fosse vetro sottile. I frammenti volarono via, colpendo le mura di Asgard, e Fenrir ululò alla luna, un suono che fece tremare le fondamenta del palazzo di Odino.

Non dandosi per vinti, gli dei forgiarono una seconda catena, chiamata Dromi. Questa era due volte più spessa e resistente della prima, un capolavoro di metallurgia infusa di magia. Di nuovo, si avvicinarono al lupo, lodando la sua forza sovrumana e chiedendogli un’ulteriore prova. Fenrir guardò la catena e capì che era molto più forte della precedente, ma sentì anche che la sua stessa forza cresceva in risposta al pericolo. Con uno sforzo maggiore, tendendo i tendini e facendo scricchiolare le ossa, il lupo calciò con tale violenza che Dromi esplose in mille pezzi. In quel momento, il terrore degli dei divenne assoluto. Capirono che nessun materiale esistente nel mondo visibile avrebbe potuto trattenere il figlio di Loki.

Fu allora che Odino inviò un messaggero a Svartálfaheimr, il regno dei nani, i maestri artigiani dell’oscurità. Chiese loro di creare qualcosa che non fosse basato sulla forza bruta, ma sull’essenza stessa dell’impossibile. I nani, usando ingredienti che non appartenevano alla logica dei mortali, forgiarono Gleipnir. Usarono il rumore del passo di un gatto, la barba di una donna, le radici di una montagna, i tendini di un orso, il respiro di un pesce e lo sputo di un uccello. Il risultato non fu una pesante catena di ferro, ma un nastro sottile, liscio come la seta, quasi invisibile alla vista ma intriso di un potere che legava l’anima stessa della creatura.

Quando gli dei portarono Fenrir sull’isola deserta di Lyngvi, nel mezzo del lago Ámsvartnir, il lupo percepì l’inganno. Quel nastro sottile gli sembrava sospetto. Se fosse stato solo un nastro, non ci sarebbe stata gloria nello spezzarlo. Se invece fosse stato magico, non voleva rischiare di rimanere intrappolato. Gli dei lo derisero, dicendo che un lupo così grande non poteva aver paura di un filo di seta. Fenrir, con la saggezza dei mostri, pose una condizione: avrebbe accettato di farsi legare solo se uno degli dei avesse messo la propria mano nella sua bocca come pegno di buona fede. Il silenzio cadde sugli Aesir. Sapevano che il nastro era indistruttibile e che chiunque avesse messo la mano in quelle fauci l’avrebbe persa.

Solo Týr, il più nobile tra loro, fece un passo avanti. Sapeva che il suo sacrificio era necessario per la salvezza del mondo. Mise la mano destra tra i denti affilati di Fenrir. Gli dei legarono il lupo con Gleipnir, e più la bestia lottava, più il nastro si stringeva, penetrando nella carne ma senza mai cedere. Quando Fenrir capì di essere stato sconfitto dalla magia e che gli dei non lo avrebbero liberato, le sue mascelle si chiusero con la forza di un fulmine. La mano di Týr fu recisa di netto, ma il lupo era finalmente prigioniero. Gli dei risero, tutti tranne Týr, mentre piantavano una spada nelle fauci aperte di Fenrir, con l’elsa sulla mascella inferiore e la punta su quella superiore, per impedirgli di mordere ancora. Da quel momento, una bava costante iniziò a fluire dalla sua bocca, formando il fiume Ván, il fiume della speranza infranta.

Ma il tempo, per gli immortali e per i mostri, scorre diversamente. Fenrir rimase incatenato per ere intere, nutrendo il suo odio nel buio, sentendo il sapore del ferro e del proprio sangue. Mentre il mondo sopra di lui cambiava e gli uomini nascevano e morivano, la sua rabbia diventava una forza cosmica. Egli non era solo un prigioniero; era una bomba a orologeria piazzata nel cuore dell’esistenza. Ogni tremore della terra era un suo movimento, ogni tempesta un riflesso del suo respiro soffocato. Egli aspettava il segnale, l’istante in cui l’ordine si sarebbe spezzato per lasciare spazio al caos primordiale.

E infine, arrivò il Fimbulvetr, l’inverno dei tre anni, dove la neve cadeva da ogni direzione e il calore del sole svaniva dalla memoria degli uomini. Il mondo sprofondò nelle guerre e nell’odio fratricida. Le fondamenta della realtà iniziarono a incrinarsi. I legami magici di Gleipnir, un tempo indistruttibili, iniziarono a cedere sotto il peso di un odio che aveva superato il potere della creazione. Con un ululato che squarciò i nove regni e fece tremare le stelle nelle loro orbite, Fenrir spezzò le sue catene. La spada che gli bloccava le mascelle cadde, e la sua bocca si spalancò così tanto che la parte inferiore toccava la terra e quella superiore raggiungeva il cielo.

Mentre avanzava verso la piana di Vígríðr, il campo di battaglia finale, Fenrir non era più solo un lupo. Era la distruzione fatta carne. Accanto a lui marciavano suo fratello Jörmungandr, il serpente del mondo, e le legioni dei morti guidate da suo padre Loki. Il fuoco di Muspellheim bruciava dietro di loro. Il Ragnarök era giunto. Gli dei, pronti alla loro fine gloriosa, uscirono dal Valhalla per l’ultimo scontro. Odino, cavalcando lo stallone a otto zampe Sleipnir, cercò immediatamente il suo destino. Sapeva che la sua battaglia non era contro un esercito, ma contro l’oscurità che lui stesso aveva cercato di contenere.

Lo scontro tra Odino e Fenrir fu il vertice del caos. Il Padre di Tutto brandiva la lancia Gungnir, che non mancava mai il bersaglio, ma Fenrir era diventato il vuoto assoluto, un abisso che non poteva essere ferito dalla saggezza o dalle armi divine. Mentre il cielo si oscurava e i giganti del fuoco distruggevano le città degli uomini, il lupo balzò. In quel momento, non ci fu gloria, non ci furono canti eroici. Solo la cruda realtà della profezia che si avverava. Fenrir chiuse le sue fauci colossali su Odino, inghiottendo il dio che aveva creato il mondo e i suoi ordini. Il Padre di Tutto svanì nell’oscurità dello stomaco del mostro, e con lui morì un’era intera.

Tuttavia, il trionfo di Fenrir fu breve. Víðarr, il figlio silenzioso di Odino, il dio della vendetta, si scagliò contro la bestia. Indossava uno stivale speciale, fatto con tutti i ritagli di cuoio che i calzolai avevano gettato via nel corso della storia. Con questo stivale, calpestò la mascella inferiore del lupo, e con le sue mani nude afferrò quella superiore, lacerando la gola di Fenrir fino a ucciderlo. Il lupo del destino cadde, il suo sangue inondò la terra già devastata, ma il suo compito era stato assolto. Il vecchio mondo era stato divorato, le vecchie gerarchie distrutte.

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