ALBANESE ATTACCA GIORGIA MELONI: LA RISPOSTA DELLA PREMIER LA FA CROLLARE IN DIRETTA

ROMA – Ci sono serate televisive che scivolano via nell’indifferenza generale, tra slogan ripetuti a memoria e un fair play di facciata che annoia il telespettatore. E poi ci sono serate come quella appena trascorsa allo Studio 5, dove la storia politica recente del nostro Paese sembra aver subito un’accelerazione improvvisa e brutale. Quello andato in scena tra la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e la Relatrice Speciale ONU Francesca Albanese non è stato un dibattito: è stata un’esecuzione politica in prima serata, consumata sotto le luci fredde di una diretta che ha tenuto milioni di italiani incollati allo schermo.
L’atmosfera prima della tempesta
Già dai primi istanti, l’aria nello studio era satura di un’elettricità pericolosa. Da un lato Francesca Albanese, rigida nel suo ruolo istituzionale, venuta a portare la voce del diritto internazionale ma finita a difendere l’indifendibile. Dall’altro Giorgia Meloni, seduta in quella posa da predatrice pronta allo scatto che i suoi avversari conoscono fin troppo bene. Il casus belli era la cronaca nera, nerissima, delle ultime 24 ore: l’assalto squadrista alla sede de La Stampa di Torino durante lo sciopero generale. Un attacco al cuore dell’informazione che la Albanese, con un tweet incendiario, aveva definito un “monito”. Una sola parola, pesante come un macigno, che ha scatenato l’inferno.
“Basita”: L’inizio della fine per Albanese
Quando il conduttore ha dato la parola alla Premier, dopo aver mostrato le immagini dei fumogeni e della violenza, ci si aspettava la solita condanna di rito. Invece, Meloni ha scelto il silenzio. Ha lasciato cadere la penna sul tavolo – un suono secco, simile a un colpo di pistola – e ha sussurrato una sola parola: “Basita”.
È stato l’inizio di un crescendo rossiniano di indignazione. Con una lucidità chirurgica, la Meloni ha smontato la tesi sociologica della Albanese, quella secondo cui la violenza sarebbe un “sintomo” di un’informazione malata. “Lei ha usato la parola monito”, ha incalzato la Premier, alzando progressivamente il tono. “Sa chi usava questa parola? I brigatisti quando gambizzavano i giornalisti. I mafiosi con le teste di capretto”. L’accusa è stata devastante: giustificare la paura fisica dei giornalisti come un atto pedagogico necessario. Albanese ha tentato di replicare, di parlare di “conseguenze” e non di “merito”, ma è stata travolta da un muro retorico insormontabile. La Meloni, vittima per anni di feroci critiche a mezzo stampa, si è paradossalmente (e abilmente) eretta a paladina della libertà di quei giornali che la attaccano ogni giorno, lasciando alla funzionaria ONU il ruolo scomodo della censore morale.
La trappola perfetta
Ma il vero capolavoro tattico della serata, quello che verrà studiato dagli esperti di comunicazione politica, è arrivato a metà confronto. La discussione si è spostata sulle piazze, su quella “marea umana” che Albanese rivendicava come legittimazione delle sue tesi. La relatrice, sentendosi forte del supporto popolare, si è lanciata in un’invettiva appassionata, accusando la Meloni di vivere in una bolla e gridando che quelle piazze “erano contro di lei”.

È stato in quel preciso istante che la trappola è scattata. La Meloni non si è difesa. Non ha negato. Anzi, ha sorriso. Un sorriso gelido, di chi vede l’avversario camminare volontariamente verso il baratro. “Ha ragione”, ha ammesso la Premier, spiazzando tutti. “Era tutto contro Giorgia Meloni. Lo confermo”.
Il silenzio in studio si è fatto irreale. Albanese, confusa da quella che sembrava una resa, non ha capito subito cosa stava accadendo. La Meloni ha poi sferrato l’affondo decisivo: “Lei mi sta confermando che per voi la tragedia di Gaza non è un fine, ma un mezzo. Usate la bandiera palestinese come un bastone per picchiare il governo italiano”.
Il crollo della narrazione morale
In pochi secondi, la superiorità morale della Albanese si è sgretolata. La Premier ha trasformato l’ammissione dell’avversaria nella prova regina di uno “sciacallaggio politico” cinico e spietato. L’accusa è stata brutale: aver ridotto un dramma umanitario e il sangue dei bambini a un accessorio scenografico per la battaglia politica interna contro il centrodestra. “Dov’è la vostra solidarietà?”, ha chiesto la Meloni allargando le braccia. “La vostra non è solidarietà internazionale, è odio politico travestito”.
La Albanese, visibilmente scossa, ha provato a rifugiarsi nel linguaggio accademico, parlando di “intersezionalità” e “logiche imperialiste”, ma è sembrata improvvisamente lontana, scollegata dalla realtà, quasi elitaria nel suo tentativo di intellettualizzare la violenza di piazza. La Meloni non le ha perdonato nulla, definendo il suo linguaggio “quello dei salotti Radical Chic”, incomprensibile agli italiani e utile solo a mascherare la giustificazione del teppismo.
L’immagine finale: sola e sfuocata
Il finale è stato degno di una sceneggiatura cinematografica. La Meloni ha chiuso il dibattito definendo la Albanese non una costruttrice di pace, ma una “benzinaia del fuoco sociale”, venuta in studio con la tanica piena sperando nell’incendio. E quando le luci si sono abbassate e i titoli di coda hanno iniziato a scorrere, la regia ci ha regalato l’immagine più potente della serata.
Mentre la Albanese, con un ultimo disperato tentativo di salvare la forma, accennava una stretta di mano, Giorgia Meloni le ha voltato le spalle. Si è abbottonata la giacca e si è incamminata verso l’uscita senza nemmeno guardarla. La relatrice ONU è rimasta lì, sola al centro della scena, piccola e sfuocata sullo sfondo, mentre la Premier usciva vincitrice indiscussa dall’arena.
Non è stato solo uno scontro tra due donne o due visioni politiche. È stato lo svelamento di una ipocrisia di fondo che ha caratterizzato il dibattito pubblico degli ultimi mesi. La Meloni ha dimostrato che, quando la polvere si posa, la violenza – verbale o fisica – non paga mai. E che chi lancia “moniti” alla stampa, in Italia, finisce spesso per esserne travolto. Ieri sera, nello Studio 5, non è crollata solo una tesi difensiva: è crollata l’intera impalcatura ideologica di chi pensa di poter usare la moralità come un’arma a senso unico.