Elezioni regionali, a urne aperte già si parla del dopo per uno dei leader

Elezioni regionali, a urne aperte già si parla del dopo per uno dei leader

La vigilia elettorale si è trasformata, nel giro di poche settimane, in un racconto assai diverso da quello immaginato dall’opposizione. Il clima politico che accompagna il voto nelle sei regioni chiamate alle urne è carico di tensioni e aspettative, ma la sensazione generale è che l’assalto al governo non produrrà lo scenario ribaltato che qualcuno, nei corridoi della sinistra, aveva evocato con entusiasmo sin dall’inizio dell’autunno. L’idea di un cappotto contro l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni – “5 a 1”, si esaltava nei primi sussurri – si è progressivamente sgretolata, diventando prima un più prudente “4 a 2” e ora una speranza minima: chiudere 3 a 3 e poter raccontare un pareggio come se fosse una vittoria politica.

A determinare questo ridimensionamento delle ambizioni sono state anche le dinamiche emerse nelle regioni dove si è già votato. La sfida delle Marche, indicata fin dall’inizio come un test decisivo, ha visto il centrodestra consolidare il proprio dominio nonostante una campagna elettorale caratterizzata da un pressing mediatico imponente. Gli avversari speravano in uno scatto last minute, in un territorio che negli anni passati aveva mostrato oscillazioni significative, ma l’asse guidato da Francesco Acquaroli ha retto senza cedimenti. Lo stesso copione si è ripetuto in Calabria, dove la sinistra sognava di mettere alle corde Roberto Occhiuto, ma il risultato ha confermato l’orientamento dell’elettorato. L’unica luce accesa per l’opposizione, finora, rimane la Toscana, regione dove il centrosinistra ha inciso una vittoria importante ma non sufficiente a riequilibrare il quadro nazionale.

Elezioni regionali, caccia all’ultimo voto

Lo sguardo ora corre verso domenica prossima, quando a giocarsi la partita saranno soprattutto Veneto, Puglia e Campania. Nella regione del Nordest, il successore designato di Luca Zaia, il giovane Stefani della Lega, sembra avviato verso un’affermazione solida, favorita da anni di amministrazione percepita come stabile e radicata. Sul fronte meridionale, invece, la sfida resta aperta: Puglia e Campania potrebbero ancora regalare sorprese all’opposizione, e alcuni sondaggi descrivono un clima competitivo soprattutto a Napoli e dintorni. Ma anche nel caso in cui la sinistra riuscisse a imporsi in entrambe le regioni meridionali, il risultato complessivo resterebbe un pareggio. Tanto rumore per nulla, dicono alcuni analisti, osservando come lo slancio propagandistico non coincida affatto con la mappa reale dei rapporti di forza.

In questo scenario, emergono finalmente le tensioni interne che attraversano da mesi il principale partito d’opposizione. Tra i dem, le divisioni sono sempre più visibili. L’ala riformista ha smesso di celare il proprio malumore: non intende più passare per la corrente costantemente sacrificata, né accetta di essere trascinata sullo sfondo da una leadership considerata poco inclusiva. Emblematico il caso della Toscana: se da un lato la vittoria è stata salutata come un segnale di vitalità, dall’altro la gestione della coalizione ha generato malumori, con accuse di gestione “prepotente” e di scarso coinvolgimento delle componenti non allineate. A questo si aggiunge un altro problema strategico: la mancanza di candidati propri nelle regioni al voto, un handicap che indebolisce la capacità di narrazione e di radicamento territoriale.

Proprio da questo punto si allarga il discorso sulle alleanze, tema cruciale del presente e del futuro. L’accordo con il Movimento Cinque stelle, presentato come la chiave per ricostruire un campo largo competitivo, fatica a funzionare nei territori. Troppi passi falsi da parte pentastellata, poca alchimia con l’elettorato postgrillino, ancora sospettoso verso un rapporto stabile con il Pd. Non è un caso che, pur tentando di caricare il clima pre-voto, la stessa segreteria abbia dovuto ricordare che “le regioni non saranno un test nazionale” e che “ogni regione fa storia a sé”, una dichiarazione che riduce lo spazio narrativo per rivendicare eventuali successi come prova di un vento politico in cambiamento.

Eppure, nelle stanze del Nazareno pesa anche un’altra riflessione: quella che riguarda la percezione esterna della leadership e dell’agenda politica. Molti osservatori, anche nel campo progressista, descrivono una direzione troppo ideologica, troppo poco aderente alla domanda concreta del Paese. La proposta programmatica non appare seducente per gli elettori, soprattutto quelli che manifestano un certo disagio verso il governo ma non trovano nell’opposizione un’alternativa credibile. Un messaggio che tende a ripetersi, privo di innovazioni sostanziali, lascia spazio all’astensione più che a un trasferimento di consensi.

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In questo vuoto s’insinua, inevitabilmente, la figura di Giuseppe Conte. Non tanto come leader di una coalizione, quanto come possibile alternativa interna alla stessa area progressista. Tra alcuni simpatizzanti di sinistra, l’ex presidente del Consiglio gode di un credito più alto di quanto si voglia ammettere, e questo ribaltamento di ruoli pesa non poco nell’equilibrio futuro dell’opposizione. A poco più di un anno dalle Politiche, la corsa alla rivincita sembra inceppata, e ciò che doveva essere un percorso lineare verso la premiership appare ora come un terreno accidentato, in cui il rischio più grande non è perdere contro il governo, ma essere scavalcati dall’alleato-rivale.

Il risultato di queste elezioni regionali, qualunque esso sia, racconta già una storia: l’Italia non sta cercando un cambio di rotta improvviso, e anche chi sperava di capitalizzare la stanchezza o il malcontento verso l’esecutivo ha dovuto fare i conti con una realtà più complessa e meno malleabile della propaganda. E da lunedì sera, per qualcuno, i problemi potrebbero essere appena iniziati.

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