Gli atti intimi del re effeminato e la sua terribile fine con una asta rovente introdotta nel corpo

La notte scese con una densità quasi palpabile sul castello di Berkeley in quel settembre del 1327, quando le pietre secolari iniziarono a custodire un segreto che la storia non è mai stata in grado di raccontare senza un brivido. In una cella umida costruita proprio sopra il fossato pestilenziale, un uomo che un tempo era stato unto da Dio e acclamato come re d’Inghilterra attendeva un destino che nessun monarca, nemmeno il più odiato, dovrebbe affrontare. Non era solo l’oscurità ad avvolgerlo, ma una sorta di silenzio innaturale. Il silenzio che precede un atto che nemmeno la cronaca più coraggiosa oserebbe descrivere nella sua interezza.
Edoardo II, ora prigioniero, respirava l’aria densa e avvelenata mentre ascoltava il viavai delle guardie, i cui passi sembravano carichi di una paura difficile da nascondere. I pettegolezzi successivi avrebbero detto che quella notte le pareti vibrarono, che un urlo percorse ogni corridoio come se qualcuno avesse cercato di squarciare il velo tra la vita e la morte. Ma anche questi resoconti sono imprecisi, come se i testimoni stessi avessero deciso di coprire i fatti con le ombre, temendo di ammettere di aver sentito qualcosa di proibito. Cosa accadde esattamente in quella cella? Fu giustizia politica, punizione morale o semplicemente vendetta travestita da necessità?
Le cronache medievali parlano sempre per enigmi, piene di metafore e silenzi, perché nemmeno gli scribi più crudeli volevano mettere per iscritto ciò che pensavano fosse accaduto. Per capire come un re sia arrivato a una tale fine, dobbiamo tornare indietro di decenni, quando Edoardo era ancora un bel ragazzo, dagli occhi chiari e dalle mani troppo morbide per un figlio del martello di Scozia. Fin dall’infanzia, le aspettative del regno si erano scontrate con la sua vera natura, un’anima pacifica intrappolata in un’epoca che esigeva ferro, fuoco e conquista. Quell’incompatibilità tra ciò che era e ciò che avrebbe dovuto essere aveva lentamente acceso una fiamma invisibile che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Una fiamma che non si vedeva, ma che bruciava pericolosamente negli angoli dove la cortesia e la politica non arrivavano mai. Molti lo avrebbero definito incompetente, altri decadente, altri semplicemente diverso. Ma nessuno di loro avrebbe mai capito l’insostenibile fardello di vivere in una contraddizione permanente: indossare una corona disegnata per i guerrieri quando il suo cuore apparteneva al mondo degli artigiani, dei musicisti e degli esseri che cercavano l’affetto più del potere.
Alla fine quella contraddizione non solo spezzò il suo regno, ma determinò anche il modo crudele e accuratamente silenzioso in cui la sua storia si sarebbe chiusa. Fuori, nei cortili vuoti del castello, il vento soffiava con una fredda insistenza, come se presagisse che quella notte sarebbe stata ricordata per secoli. Le guardie si scambiavano sguardi ansiosi, incapaci di ignorare la tensione che aleggiava nell’aria. Qualcosa stava per accadere. Qualcosa deciso lontano e da persone che avevano già condannato il re molto prima che le sbarre di Berkeley lo rendessero prigioniero. E così, mentre l’ultimo barlume del giorno svaniva dietro i bastioni, Edoardo II aspettava. Forse intuiva che non sarebbe sopravvissuto a quella notte. Forse capiva che la storia aveva già scritto la sua sentenza.
La verità è che prima di sapere cosa accadde in quella stanza buia e umida, dobbiamo tornare all’origine della sua tragedia, al momento in cui un bambino che non ha mai voluto essere re è stato spinto verso un destino impossibile. Edoardo nacque nel 1284 sotto l’ombra imponente di un padre il cui nome faceva tremare intere frontiere, Edoardo I, noto in tutta Europa come il Martello di Scozia. Dal momento in cui aprì gli occhi, il principe fu destinato, secondo l’implacabile logica dell’epoca, a diventare un riflesso perfetto di quel leggendario guerriero. Ma la verità, silenziosa e persistente come una crepa nel marmo, emerse presto. Il giovane Edoardo non aveva nulla dell’acciaio di suo padre. Mentre il re dedicava ogni alba ad addestrare soldati, pianificare campagne e padroneggiare la brutale arte del comando, suo figlio preferiva passeggiare tra gli artigiani, remare nei laghi vicini, assistere a spettacoli teatrali o persino scavare fossati con i lavoratori del regno.
Attività che oggi considereremmo umane, sensibili, ma che nell’Inghilterra medievale erano viste come segni di imperdonabile debolezza. Non era codardia, era semplicemente un altro modo di esistere. Edoardo aveva una sensibilità diversa, era affascinato dagli oggetti belli, dalla musica, dalle storie e trovava più conforto nella compagnia delle persone semplici che nel rigido sfarzo della corte. Tuttavia, in quel mondo ferocemente strutturato, questa differenza lo rendeva un principe difettoso agli occhi di molti. La nobiltà mormorava, i consiglieri si inquietavano e suo padre osservava tutto con crescente frustrazione. Un principe doveva prepararsi alla guerra, doveva pensare come un comandante, doveva vivere per conquistare, ma Edoardo sembrava vivere per sentire.
La tragedia iniziò a dipanarsi quando la Morte, quella frequente visitatrice delle famiglie reali medievali, iniziò a portarsi via i suoi fratelli uno ad uno. Improvvisamente, quel figlio che nessuno aveva considerato preparato si ritrovò erede del trono più potente dell’Europa occidentale. Era come se il destino avesse deciso di porre sulle sue spalle un’armatura che non era fatta per lui. Ed Edoardo I, consapevole di ciò, cercò di modellarlo con la forza, lo portò in campagne militari, lo costrinse ad assistere a battaglie, lo pressò affinché adottasse la durezza che la stirpe Plantageneta sembrava esigere, ma era come battere l’acqua sperando di trasformarla in pietra. Ad ogni tentativo del padre, Edoardo rispondeva rifugiandosi ulteriormente nei propri interessi, coltivando una personalità che contrastava dolorosamente con l’ideale guerriero del tempo. I cortigiani iniziarono a vederlo come un’anomalia, troppo gentile, troppo sensibile, troppo umano per il ruolo a cui era destinato. Eppure la macchina del potere non si fermò.
Quando Edoardo I morì nel 1307, il ventitreenne ascese al trono in mezzo a un silenzio imbarazzante. I nobili si aspettavano grandezza, il clero si aspettava disciplina, l’intero regno si aspettava un leader che continuasse l’opera del Martello di Scozia. Ciò che ottennero, tuttavia, fu un re che portava dentro di sé un conflitto inconciliabile: l’obbligo di vivere come un guerriero e il profondo desiderio di vivere come un uomo comune. Una frattura che, sebbene invisibile all’inizio, sarebbe presto diventata la prima crepa nel crollo totale. Così iniziò il regno di un principe che non si adattò mai all’armatura che gli fu imposta, un difetto nella pianificazione del destino o forse un primo avvertimento che la tragedia aveva già scelto il suo protagonista.
L’arrivo di Piers Gaveston nella vita del giovane Edoardo fu per molti cronisti il vero punto di svolta nella tragedia del re. Gaveston non era né un grande signore né un principe del sangue. Era un cavaliere guascone, figlio di un nobile minore che aveva servito fedelmente il temibile Edoardo I. La sua presenza nella casa del principe aveva uno scopo chiaro: insegnare disciplina, onore, strategia. Ma ciò che nacque tra i due fu qualcosa di completamente diverso, qualcosa che né la corte, né la nobiltà, né la moralità medievale erano pronte a capire o tollerare. I due divennero inseparabili quasi dal primo incontro. Gaveston aveva un carisma sfacciato, un modo di muoversi a corte senza chiedere il permesso, un’intelligenza acuta che incantava il principe e feriva profondamente coloro che credevano di avere diritto alla riverenza del giovane erede.
Edoardo trovò in lui qualcosa che nessun altro gli aveva offerto: comprensione. Gaveston lo guardava non come il figlio di un conquistatore, ma come un giovane pieno di dubbi, desideri e un disperato bisogno di affetto. Quando Edoardo ascese al trono, la devozione si trasformò in ossessione. Il nuovo re diede a Gaveston terre, titoli e ricchezze che causarono uno scandalo immediato. La nobiltà inglese si sentì insultata quando Edoardo gli concesse la contea di Cornovaglia, un titolo tradizionalmente riservato ai membri della famiglia reale. Era come se avesse dichiarato pubblicamente che Gaveston apparteneva al cuore stesso della stirpe Plantageneta. Ma ciò che più infiammò gli animi furono i gesti quotidiani, quelli che nessuna legge poteva regolare: il modo in cui Edoardo lo cercava, il modo in cui lo poneva al suo fianco durante le cerimonie ufficiali, spostando persino la propria moglie, la principessa Isabella di Francia.
Gaveston, lungi dal moderarsi, fece di tutto per infiammare ulteriormente l’ira dei nobili. Diede soprannomi umilianti ai grandi signori: il conte di Warwick lo chiamava “il maiale nero”, il conte di Lancaster “l’attore”. Li scherniva ai banchetti pubblici, rideva della loro solennità e li trattava come se fossero comparse nella storia che lui e il re stavano interpretando. Quell’arroganza, un misto di giovinezza, impunità e certezza di essere intoccabile, lo trasformò nell’uomo più odiato d’Inghilterra. Da una prospettiva moderna potremmo pensare a Gaveston come a una figura che ricorda gli influenti consiglieri che nella politica contemporanea diventano ombre pericolose dietro leader fragili, ma nel Medioevo la sua figura era ancora più esplosiva.
Le voci sulla natura della sua relazione con il re viaggiarono per l’Europa, avvolte in un linguaggio in codice: affetto improprio, legame innaturale, amicizia pericolosa. In una società dove la moralità cristiana dominava ogni aspetto della vita pubblica, queste insinuazioni non erano meri pettegolezzi; erano accuse politiche che potevano giustificare la ribellione. Alla fine la nobiltà decise che l’influenza di Gaveston era una minaccia esistenziale per il regno. Nel 1312 lo catturarono vicino a Scarborough. Edoardo, disperato, non riuscì ad arrivare in tempo. Gli uomini di Warwick lo giustiziarono senza un processo formale. Le cronache dicono che Edoardo, ricevuta la notizia, crollò come un uomo che perde il compagno di vita, non un vassallo. Passò giorni senza mangiare, senza dormire, completamente devastato, come se una parte essenziale della sua anima gli fosse stata strappata via. Quel dolore segnò qualcosa di più di un lutto personale. Aprì un vuoto oscuro nel cuore del re. Un vuoto che non sapeva ancora sarebbe stato riempito da qualcuno di più pericoloso, più ambizioso e più letale per il suo destino.
La morte di Gaveston lasciò un vuoto che spezzò non solo il cuore di Edoardo, ma anche il tessuto emotivo che, sebbene debole, sosteneva ancora il suo regno. Per mesi il re vagò per la corte come un uomo disorientato, incapace di governare, incapace persino di fingere forza. Ed è stato esattamente in quel momento di assoluta vulnerabilità che apparve qualcuno che poteva vedere con precisione quasi chirurgica la crepa che poteva esplodere: Hugh Despenser il Giovane. A differenza di Gaveston, Despenser non aveva né il fascino giovanile né l’audace brillantezza che così spesso irritavano i nobili. Era freddo, meticoloso, calcolatore, un uomo che osservava prima di parlare, che studiava silenziosamente i gesti del re, come chi analizza il punto esatto in cui deve essere conficcato un cuneo. Per Edoardo, che era a pezzi e solo, quel silenzio era confortante. Per Despenser era l’inizio di un’opportunità impareggiabile.
Poco a poco iniziò ad avvicinarsi al monarca. Gli offriva consigli quando nessun altro osava parlare. Gli offriva compagnia quando tutti gli altri lo evitavano. Gli offrì lealtà in un momento in cui l’intera corte mormorava contro di lui. Ed Edoardo, che ancora sanguinava emotivamente per la perdita di Gaveston, si aggrappò a Despenser con la disperazione di chi teme di essere lasciato solo di nuovo. Ciò che sorse tra i due non fu la radiosa devozione che un tempo univa il re e il guascone, ma una dipendenza più oscura. Edoardo aveva bisogno di essere amato; Despenser aveva bisogno di potere. Da lì l’ascesa fu meteorica. In pochi mesi Despenser accumulò terre confiscate, castelli strategici, redditi colossali e titoli riservati ai più potenti del regno. Era come guardare un uomo arrampicarsi sulle ossa dell’intero paese, usando la sua vicinanza al re come scala. Se Gaveston era stato una tempesta giovanile, Despenser era un’ombra che si diffondeva lentamente, soffocando tutto al suo passaggio.
La nobiltà inglese osservava lo spettacolo con crescente orrore. I signori ricordavano l’arroganza del guascone, ma a modo suo Gaveston era stato trasparente. Despenser, d’altra parte, era un veleno silenzioso, persistente, quasi impossibile da fermare. Attraverso il re tirava fili invisibili, eliminava nemici, confiscava proprietà a coloro che lo mettevano in discussione e riscriveva le leggi a proprio vantaggio. Ogni giorno l’Inghilterra sembrava meno un regno e più un feudo privato dei Despenser. E mentre il paese sprofondava nel caos politico, qualcosa di altrettanto tragico stava accadendo all’interno del palazzo. La regina Isabella, figlia del re di Francia, vide la sua dignità, le sue terre e infine la sua libertà esserle sottratte dal favorito del re. Despenser arrivò persino a controllare le sue finanze e a limitare i suoi movimenti, riducendo la regina d’Inghilterra a una figura simbolica, una prigioniera incoronata. Quell’umiliazione silenziosa ma sistematica accese in lei un fuoco ardente quanto l’inferno politico stesso che stava consumando il regno.
La relazione tra Edoardo e Despenser, tanto oppressiva quanto sbilanciata, finì per affossare la reputazione del monarca. Non era più visto semplicemente come un re debole; ora lo vedevano come un tiranno manipolato da un predatore. Il popolo mormorava, la Chiesa si interrogava, i nobili cospiravano apertamente. L’Inghilterra era un castello di carte sul punto di crollare e al suo centro c’era un re che cercava affetto e un uomo disposto a distruggere l’intero paese per mantenere il suo potere. E mentre Edoardo si aggrappava sempre più strettamente a Despenser, senza rendersi conto che stava abbracciando l’architetto stesso della sua rovina, la regina Isabella stava già preparando il colpo che avrebbe cambiato la storia. Mancava solo il momento giusto.
L’umiliazione ha un punto di rottura, un momento preciso in cui cessa di essere sopportabile e si trasforma in una scintilla capace di dare fuoco a un intero regno. Per Isabella di Francia, quel momento arrivò lentamente, come un veleno distillato goccia dopo goccia nel corso degli anni. Arrivò in Inghilterra da adolescente, figlia del potente Filippo IV, uno dei re più temuti e rispettati d’Europa, e destinata a suggellare un’alleanza che doveva rafforzare due corone. Ma ciò che trovò fu un matrimonio vuoto, un marito emotivamente assente e infine un aperto disprezzo mentre Gaveston e poi Despenser occupavano il posto che la politica, la legge e la moralità assegnavano a lei. Despenser non solo rubò le terre della regina, rubò qualcosa di più profondo: la sua dignità. La sorvegliava, la limitava, la ammanettava metaforicamente all’interno del suo stesso palazzo. Sotto lo sguardo indifferente o forse timoroso di Edoardo, Isabella divenne una figura ornamentale, e quell’affronto a una donna educata a comprendere il potere non fu semplicemente una ferita personale, fu una dichiarazione di guerra.
L’opportunità arrivò nel 1325 quando Edoardo prese una decisione che molti storici considerano ancora uno degli atti più maldestri del suo regno. Inviò Isabella in Francia per negoziare con suo fratello, il re Carlo IV. Il re, disperato per risolvere un conflitto territoriale, pensò che sua moglie avrebbe agito obbedientemente come emissaria reale, e forse lo avrebbe fatto se non fosse stato per gli anni di abbandono e umiliazione che aveva accumulato. Isabella arrivò a Parigi, la città dove era cresciuta tra intrighi, diplomazia e potere. Lì, lontana dal controllo di Despenser, qualcosa dentro di lei si risvegliò. Non era più la bambina abbagliata dal suo lignaggio, né la moglie relegata in un angolo buio. Era la figlia del bello francese, una principessa che sapeva esattamente come usare le alleanze per far cadere gli imperi. Fu lì che incontrò, o meglio, trovò Roger Mortimer, un nobile inglese fuggito dopo la sconfitta del 1322.
Mortimer era tutto ciò che Edoardo non era: determinato, carismatico, brutale quando necessario, ambizioso, senza limiti. Tra i due si sviluppò un legame che molti avrebbero descritto come una passione istantanea, ma che era in essenza un’alleanza perfetta. Lui aveva bisogno di legittimità, lei aveva bisogno di forza. Insieme potevano far cadere un re, e così iniziarono a tessere la tela che avrebbe trasformato la storia d’Inghilterra. Radunarono mercenari, contattarono nobili scontenti, costruirono una coalizione silenziosa. Ogni lettera inviata, ogni promessa fatta, ogni moneta investita era un mattone in più nel muro che alla fine avrebbe schiacciato il re. Quando sbarcarono in Inghilterra nel settembre 1326, molti si aspettavano che la ribellione venisse schiacciata immediatamente, ma accadde il contrario. Ovunque Isabella mettesse piede, le città aprivano le loro porte. I nobili si unirono alla sua causa senza esitazione. Il popolo festeggiava nelle strade. Era come se l’Inghilterra avesse trattenuto il respiro per anni e potesse finalmente espirare.
Edoardo e Despenser fuggirono verso il Galles, inseguiti come animali feriti. Cercarono di radunare un esercito, ma nessuno arrivò. L’autorità reale un tempo sacra era evaporata. A novembre furono catturati. Despenser ricevette una punizione esemplare, riservata ai traditori e, secondo alcuni sermoni dell’epoca, a coloro che portavano il re fuori strada. Non c’è bisogno di descriverla; basti dire che fu un atto calcolato per ripulire il suo nome e terrorizzare chiunque pensasse di seguire le sue orme. Edoardo, dal canto suo, fu trattato come un prigioniero di alto valore. Non potevano giustiziarlo pubblicamente; uccidere un re unto era un rischio politico e religioso troppo grande, ma non potevano nemmeno lasciarlo vivere perché diventasse un vessillo della ribellione. C’era solo una soluzione: costringerlo ad abdicare. Nel gennaio 1327, davanti a una solenne assemblea al castello di Kenilworth, Edoardo II pianse mentre consegnava la corona al figlio quattordicenne. Non fu solo la perdita del potere, fu la conferma finale che il mondo intero — sua moglie, i suoi nobili, il suo popolo — aveva deciso che la sua storia doveva finire, e con la sua caduta la tragedia era tutt’altro che finita. Anzi, il suo capitolo più oscuro era appena iniziato.
Dopo la sua abdicazione forzata, il destino di Edoardo II era segnato, anche se nessuno osava dirlo ad alta voce. Ufficialmente non era più un re. Ufficiosamente, era un problema politico che doveva scomparire senza generare martiri, senza suscitare simpatia, senza lasciare una singola traccia che potesse incriminare coloro che beneficiavano della sua caduta. Iniziò così il suo pellegrinaggio attraverso le ombre, da Kenilworth a vari luoghi di prigionia, finché non fu finalmente trasferito al castello di Berkeley, un luogo scelto non per il suo comfort, ma per la sua capacità di infliggere sofferenza senza il bisogno di versare una sola goccia di sangue. La cella assegnata a Edoardo era un simbolo perfetto della sua degradazione. Costruita sopra il fossato del castello, riceveva costantemente i fumi nauseabondi delle fogne e dei rifiuti animali. L’aria era così densa che bruciava la gola. L’umidità si attaccava alla pelle come una seconda prigione. Non c’era bisogno di violenza esplicita. Bastava lasciare che la natura facesse il lavoro. Le guardie avevano istruzioni chiare: non lasciarlo morire immediatamente, ma deteriorarlo abbastanza perché la morte sembrasse un processo naturale.
Eppure Edoardo resistette. Il suo corpo, sorprendentemente forte nonostante gli anni di tensione e il crollo emotivo, sopportò il fetore, lo sporco, il freddo. Giorno dopo giorno continuava a respirare, aggrappandosi a quella sottile linea tra sofferenza e sopravvivenza. E più resisteva, più diventava pericoloso per coloro che governavano in suo nome. Un uomo del genere, anche se indebolito, poteva diventare un simbolo. Bastava una fuga, una piccola cospirazione, e la storia avrebbe potuto capovolgersi. Isabella e Mortimer lo sapevano. Tutta la corte lo sapeva. Nel silenzio delle notti di Berkeley, quando il vento batteva i bastioni, i pettegolezzi fluivano per i corridoi: “Deve finire”. Ma farlo senza segni, senza tracce, senza un metodo che potesse essere messo in discussione dal clero, dai nobili o dalla storia stessa, questa era la vera difficoltà. Non poteva essere avvelenato, era rilevabile; non poteva essere strangolato, c’erano segni; non poteva essere picchiato, le ossa avrebbero parlato per lui anche dopo la morte. La morte doveva essere invisibile, un sussurro, un blackout.
Fu allora che, secondo le cronache più oscure e simboliche, emerse l’idea di una punizione che attaccasse non il corpo esterno, ma quello interno. Un metodo che avrebbe agito dove nessuno poteva vederlo, un atto che non avrebbe lasciato tracce superficiali. Le fonti medievali, sempre inclini al dramma moralizzante, parlavano di una fiamma nascosta nell’oscurità, un fuoco destinato a punire ciò che, secondo i suoi accusatori, rappresentava il presunto peccato del re. La storia ha trasformato questa immagine in leggenda, una brutale metafora che ha finito per eclissare ogni possibilità di comprendere la verità dietro l’atto. Ciò che accadde la notte del 21 settembre 1327 è avvolto in strati di silenzio. Le cronache dicono che due uomini, John Maltravers e Thomas Gourney, ricevettero istruzioni speciali. Raccontano in un linguaggio coperto da eufemismi che entrarono nella cella quando il castello dormiva e che lì fu compiuto ciò che era stato deciso. Non c’è menzione di un processo, né di confessione, né di presenza religiosa, solo un atto oscuro commesso perché la politica lo esigeva.
Gli abitanti del villaggio vicino affermarono di aver sentito un urlo, uno solo, così intenso che sembrava attraversare le mura. Ma anche questo dettaglio si perde nella nebbia della tradizione orale. L’unica cosa certa è che all’alba Edoardo II non era più vivo. Il suo corpo, quando fu preparato per l’esposizione pubblica, non mostrava segni esterni di violenza. Sembrava, come alcuni volevano che sembrasse, un uomo morto all’improvviso, forse di malattia, forse per lo sfinimento della prigione. È così che è stata costruita la versione ufficiale: pulita, silenziosa, perfetta. Ma la storia, come le pietre di Berkeley, ricorda anche ciò che si cerca di nascondere.
La morte di Edoardo II fu annunciata con solennità, avvolta in una narrazione perfettamente calcolata. Il re deposto era morto per cause naturali, indebolito dalla tristezza e dalle dure condizioni della prigione. Ma come spesso accade con i finali troppo convenienti, iniziarono presto ad apparire crepe nella versione ufficiale, e attraverso queste crepe si insinuò uno dei misteri più persistenti della storia medievale inglese. Edoardo II morì davvero quella notte o fuggì da Berkeley lasciando dietro di sé un cadavere che non era il suo? I primi dubbi apparvero pochi anni dopo. Rapporti inconsistenti, commenti frammentari e testimonianze che sembravano fuori posto iniziarono a delineare un’altra possibilità. Thomas Berkeley, il nobile ufficialmente responsabile della custodia del re, giurò in seguito che Edoardo era vivo quando lo lasciò alle cure di altri guardiani. Un tentativo di ripulire il suo nome o una confessione involontaria? L’ambiguità alimentò teorie che non sarebbero mai morte.
A ciò si aggiunse una sorprendente serie di lettere scoperte secoli dopo negli archivi europei. Una delle più inquietanti, datata 1336 da Melun-sur-Somme, menzionava che Edoardo viveva in Italia in clandestinità sotto il nome di William Galis o William il Gallese, risiedendo in un monastero a Cesena. Era un documento papale, cioè una fonte difficile da scartare come mera invenzione. Un’altra lettera attribuita al vescovo di Dunkeld parlava di un incontro con un uomo che sosteneva di essere il re deposto, descrivendolo con dettagli sufficienti perché il resoconto non sembrasse il prodotto di una superficiale ceria. Ma forse la prova più inquietante viene da suo figlio. Edoardo III, ormai adulto e pienamente consapevole del ruolo che sua madre e Mortimer avevano giocato nella caduta del padre, inviò una lettera al Papa chiedendo aiuto per localizzare una persona “che potrebbe essere mio padre”. Un semplice atto diplomatico o un segno che anche il nuovo re dubitava della veridicità del resoconto ufficiale? Un figlio che era stato usato come strumento politico forse voleva o aveva bisogno di sapere la verità.
Naturalmente, c’erano anche ragioni per incredulità. Nel Medioevo la figura dell’impostore era comune: uomini disperati o ambiziosi che si spacciavano per nobili perduti, sapendo che la mancanza di documenti visivi rendeva facile l’inganno. Se la Russia ebbe i suoi falsi Dimitri, l’Inghilterra avrebbe potuto benissimo avere i suoi falsi Edoardi. Inoltre, Isabella e Mortimer non erano ingenui; avevano rischiato troppo per permettere a Edoardo di vivere, anche a migliaia di miglia dal trono. La storia moderna di solito si colloca a metà strada. È possibile che Edoardo sia morto, ma non nella forma leggendaria descritta dalle cronache moralizzatrici. È anche possibile che sia fuggito inizialmente, protetto da una rete di simpatizzanti, solo per morire poco dopo in un angolo dimenticato del continente. Nessuna di queste versioni può essere completamente confermata.
L’unica cosa indiscutibile è che la scomparsa di Edoardo creò un vuoto pieno di echi. Echi che viaggiarono attraverso monasteri, lettere diplomatiche e sussurri politici. Echi che sette secoli dopo continuano a perseguitare storici, scrittori e curiosi. Forse il vero motivo per cui la teoria della fuga è sopravvissuta non è documentario, ma umano: il bisogno di credere che dopo una vita così segnata dall’umiliazione, Edoardo potesse almeno trovare una fine degna lontano da Berkeley, un atto finale di libertà per un uomo che non riuscì mai a esserlo mentre indossava la corona. La storia di solito giudica i re con implacabile severità. Per Edoardo II quel giudizio fu particolarmente duro. I cronisti medievali, molti dei quali influenzati da nobili che lo disprezzavano o da chierici che lo condannavano moralmente, lo descrissero come uno dei peggiori monarchi d’Inghilterra, un inetto, un debole, un giocattolo nelle mani di ambiziosi favoriti. E c’è del vero in tutto questo. Il suo regno fu un disastro politico: guerre perse, alleanze fratturate, nobili umiliati e un intero paese che sembrava vacillare sotto decisioni erratiche.
Ma quando smettiamo di guardare Edoardo come un re e lo guardiamo come un uomo, emerge un’altra storia: quella di qualcuno intrappolato in un destino che non ha mai scelto. Edoardo era nato per essere un simbolo, non una persona; per essere una spada, non un cuore. La sua epoca richiedeva durezza, disciplina e obbedienza assoluta a un modello di mascolinità forgiato nel fuoco delle crociate e delle campagne contro la Scozia. Ma era nato con un tipo diverso di forza, una che il Medioevo non aveva parole per lodare. Era un uomo che trovava bellezza in ciò che gli altri consideravano insignificante, che preferiva lavorare con le mani piuttosto che impugnare una spada, che si connetteva profondamente con persone che la sua società vedeva come inferiori, che cercava affetto in un ambiente dove l’affetto era visto come debolezza. Questo tratto squisitamente umano si trasformò in un crimine politico.
E poi c’era l’ombra che più ha perseguitato la sua eredità: le sue relazioni con Gaveston e Despenser. I cronisti medievali parlavano di affetto improprio, amore innaturale, legami illeciti, espressioni cariche della moralità cristiana del loro tempo. Nel Medioevo il concetto moderno di identità sessuale non esisteva; c’era il peccato, la condanna, il sospetto. Edoardo in questo senso non era solo un re incompetente agli occhi della nobiltà, ma anche un trasgressore morale. Il suo affetto per certi uomini, che oggi potremmo interpretare da molte angolazioni, fu allora trasformato in munizioni politiche. Tuttavia, ridurre la sua caduta esclusivamente alle sue relazioni emotive sarebbe una semplificazione eccessiva. Edoardo non sapeva come giocare al gioco del potere. Era temerario, impulsivo, cieco alle conseguenze delle sue decisioni. Non riuscì a bilanciare la lealtà personale con i bisogni del regno. In una posizione in cui ogni gesto aveva un peso, agì con la trasparenza emotiva di chi non ha mai capito quanto gli costasse essere sincero.
Ma è anche vero che visse in un mondo in cui essere diversi non era un’opzione. Un re che non voleva la guerra era una pericolosa anomalia. Un uomo che mostrava affetto in pubblico era una provocazione. Un monarca che cercava conforto emotivo invece di dominazione politica diventava un nemico delle strutture medievali. Il Medioevo, con la sua rigidità morale, la sua violenza strutturale e la sua ossessione per il controllo sociale, non poteva tollerare un leader come Edoardo. La sua fine, avvolta nel silenzio e in sinistre metafore, non fu solo una punizione politica, fu una punizione simbolica: un messaggio a chiunque deviasse dalla norma, un avvertimento che l’autenticità, quella che celebriamo oggi, poteva essere mortale. Non sorprende che per secoli Edoardo sia stato ricordato non solo come un re fallito, ma come un monito morale. I sermoni lo menzionavano come esempio di ciò che accade quando qualcuno sfida l’ordine stabilito. Le cronache lo usavano come simbolo del peccato punito. Le opere teatrali lo trasformarono in una tragedia vivente.
Eppure, con il passare del tempo la sua figura iniziò a brillare sotto un’altra luce. Oggi alcuni lo vedono come un martire involontario di un sistema che lo ha schiacciato. Altri lo interpretano come un uomo che ha scelto di vivere, almeno parzialmente, secondo i suoi sentimenti, in un’epoca che non permetteva tali scelte. Tutti concordano su qualcosa: la sua storia ci invita a riflettere, a guardare oltre il giudizio facile e a chiederci cosa succede quando una persona è costretta a recitare un ruolo incompatibile con la propria anima. Forse è questo il lato più tragico di Edoardo II. Non la sua incompetenza politica, né la sua rovinosa caduta, né il mistero della sua morte, ma il fatto che non abbia mai potuto essere se stesso senza pagare un prezzo devastante. E in quella tensione tra dovere e identità, tra ruolo e desiderio, risiede la vera essenza della sua tragedia.
Quando la morte di Edoardo II fu finalmente annunciata, il suo corpo — o il corpo che fu presentato come tale — fu trasferito al monastero di Gloucester. Lì iniziò il capitolo finale di una vita segnata dall’umiliazione, dalla perdita e dal dubbio. La tomba che sorge oggi in quel luogo non è solo un monumento funerario; è uno specchio distorto in cui l’Inghilterra, generazione dopo generazione, ha guardato le proprie paure e le proprie colpe, perché a differenza di altri sopravvissuti, la memoria di Edoardo non riuscì mai a stabilizzarsi in un’unica storia. La sua morte non rimarginò la ferita, la aprì ancora di più. Negli anni successivi alla sua sepoltura, i pellegrini iniziarono a visitare la sua tomba. Alcuni chiedevano miracoli, altri cercavano conforto, altri erano semplicemente curiosi di vedere dove riposasse un re la cui morte era stata così avvolta nel mistero. Il monastero di Gloucester divenne un luogo dove i silenzi parlavano più forte delle parole. Non era raro sentire sussurri tra i fedeli: “È davvero lì dentro? È stata la vittima o il colpevole? È morto come un re o come un uomo abbandonato?”. La figura di Edoardo, paradosso della storia…