Missione suicida nel deserto: Come il gigantesco canale Qosh Tepa dell’Afghanistan divide un’intera regione tra speranza e catastrofe

Quando si pensa all’Afghanistan, le immagini che vengono subito alla mente sono quelle di conflitti infiniti, paesaggi brulli e una crisi umanitaria profonda. Eppure, lontano dai riflettori, nelle polverose distese del nord, sta avvenendo una trasformazione così monumentale da apparire, persino dalle immagini satellitari, come una gigantesca cicatrice sulla crosta terrestre. È la costruzione del Canale Qosh Tepa: un progetto dai superlativi che, per ambizione, ricorda le grandi opere infrastrutturali del XX secolo. Ma mentre a Kabul si sogna un futuro glorioso, gli stati confinanti osservano con puro terrore gli escavatori che, giorno dopo giorno, divorano il suolo del deserto.
Un Paese sull’orlo del baratro
Per capire perché l’Afghanistan si sia lanciato in un azzardo simile, bisogna guardare alla brutale realtà locale. Il paese è attanagliato dalla peggiore siccità degli ultimi tre decenni. Dove un tempo la neve primaverile alimentava i fiumi, oggi le precipitazioni sono assenti. I campi si trasformano in distese di cemento crepato, e i pozzi, fonte di vita per generazioni, si sono prosciugati. Le conseguenze sono devastanti: oltre dieci milioni di afghani vivono ormai lontani dalle loro case, sfollati non solo dalla guerra, ma dalla sete. L’economia è a terra e la disoccupazione ha raggiunto livelli epidemici.
In questa situazione di assoluta disperazione, è stato rispolverato un vecchio piano del re Zahir Shah. L’idea: deviare l’acqua dal possente fiume Amu Darya per resuscitare i terreni morti del nord. Ciò che in passato fallì per mancanza di fondi, ora viene attuato con una determinazione quasi disperata. Senza aiuti internazionali, investendo circa il 5% dell’intero PIL afghano, il paese sta costruendo dal nulla un’opera destinata a trasformare 550.000 ettari di deserto in terra fertile.
Il Gigante di terra e polvere
Le dimensioni del Canale Qosh Tepa tolgono il fiato. Con una lunghezza pianificata di circa 285 chilometri, una larghezza che tocca i 150 metri e una profondità pari a un edificio di tre piani, è più largo di un campo da calcio e più lungo di molti fiumi naturali europei. Oltre 10.000 operai e più di 3.000 macchinari pesanti sono in azione costante. Ogni giorno spostano masse di terra sufficienti a riempire 1.000 piscine olimpiche.
Il ritmo è massacrante. Mentre la comunità internazionale si chiedeva se un Afghanistan isolato fosse capace di una tale prodezza logistica, decine di chilometri erano già stati completati. Ma questa velocità ha un prezzo pericoloso. Contrariamente agli standard industriali moderni, il letto del fiume non viene rivestito con cemento o geotessuti. Si punta sulla terra compattata, una tecnica dell’era sovietica. La logica è semplice e crudele: un canale perfetto avrebbe richiesto un decennio, ma la gente ha bisogno di acqua oggi.
Quando il terreno cede
Che questo metodo “veloce e sporco” comporti rischi enormi si è visto in modo drammatico alla fine del 2023. Una sezione dell’argine è crollata inaspettatamente. Circa 26 miliardi di galloni d’acqua si sono riversati nel deserto, una quantità difficile da immaginare. Le immagini satellitari hanno mostrato poco dopo un enorme lago artificiale dove prima c’era solo sabbia arida. L’acqua cercava la sua strada, erodendo il terreno e minacciando di annullare mesi di progressi.
La reazione dei lavoratori è stata senza precedenti. Invece di fermare il flusso d’acqua, cosa che avrebbe richiesto settimane, si sono gettati nella breccia, spesso letteralmente. In un’operazione quasi eroica, ma anche folle, hanno riparato l’argine con l’acqua ancora corrente. Hanno tappato le crepe, compattato i muri e lottato contro la fisica. La falla è stata chiusa, ma l’avvertimento resta: un canale di terra in una zona geologicamente instabile è una bomba a orologeria. Più l’acqua si allontana dal fiume madre, più il sottosuolo diventa imprevedibile.
La paura dei vicini: Una polveriera geopolitica
Mentre in Afghanistan i primi campi iniziano a verdeggiare e cresce la speranza di autosufficienza alimentare col grano, in Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan e Kirghizistan suonano gli allarmi. L’Amu Darya non è un fiume qualunque; è l’arteria vitale dell’Asia Centrale.
Per l’Uzbekistan, in particolare, la situazione è una minaccia esistenziale. Il paese vive di cotone. Milioni di persone dipendono direttamente o indirettamente dall’industria dell'”oro bianco”. Se l’Afghanistan, come previsto, prelevasse enormi quantità d’acqua, il livello dell’Amu Darya potrebbe crollare drasticamente. Gli esperti calcolano che anche solo un calo del 15% farebbe precipitare il PIL uzbeko, causando disoccupazione, povertà e disordini sociali.
Lo scenario è altrettanto cupo per il Turkmenistan, anch’esso dipendente dall’agricoltura, e per gli stati montuosi come Tagikistan e Kirghizistan, la cui fornitura elettrica si basa quasi totalmente sull’idroelettrico. Meno acqua nel fiume significa turbine ferme e città al buio in inverno. Il potenziale di conflitto è enorme, poiché l’Afghanistan rivendica il suo diritto all’acqua, pur non avendo mai fatto parte degli accordi di distribuzione post-sovietici.

L’ombra del Lago d’Aral
Su tutto questo aleggia un trauma storico: il destino del Lago d’Aral. Un tempo il quarto lago più grande della Terra, fu distrutto proprio da simili deviazioni idriche durante l’era sovietica. Oggi, dove prima navigavano pescherecci, c’è il deserto dell’Aralkum. Polvere tossica, carica di pesticidi, viene sollevata dal vento e avvelena l’aria, causando malattie.
Gli scienziati temono che il Canale Qosh Tepa possa aggravare o ripetere questa catastrofe ecologica. Se all’Amu Darya viene sottratta troppa acqua, il delicato delta non riceverà più umidità a sufficienza. L’equilibrio ecologico di un’intera regione è in gioco.
Un verdetto tra vita e morte
Il Canale Qosh Tepa è più di un semplice progetto edilizio. È il simbolo della lotta per la sopravvivenza di una nazione che non ha più nulla da perdere. Per i contadini afghani, che vedono i loro campi abbandonati tornare verdi, l’acqua è un dono divino. Promette indipendenza dalle importazioni e un abbandono della coltivazione dell’oppio a favore del grano.
Tuttavia, per i paesi vicini, il canale rappresenta una minaccia mortale. La regione si trova di fronte a un dilemma classico: la sopravvivenza di uno potrebbe significare la rovina degli altri. È una danza sul vulcano, o meglio: su un terreno desertico friabile. Se questo gigantesco azzardo passerà alla storia come una mossa geniale o come l’innesco del prossimo grande conflitto, lo diranno solo i prossimi anni. Una cosa però è certa: l’acqua dell’Amu Darya non scorrerà mai più come prima.