Parte 2: Il contadino comprò una schiava gigante per 7 centesimi… Nessuno immaginava cosa avrebbe fatto.

Parte 2: La verità nel fienile e il piano folle

Capitolo 1: Il Segreto del Fienile

La porta del fienile si chiuse con un tonfo sordo, isolando Joaquim e Benedita dal resto del mondo, dal giudizio degli altri contadini e dal freddo della notte di Vassouras. L’aria all’interno era densa dell’odore di paglia vecchia, cuoio e cavalli, ma quella notte c’era qualcosa di diverso: l’odore della paura e di una speranza folle.

Joaquim appese la lampada a olio a un gancio arrugginito. La luce tremolante proiettava ombre lunghe e distorte sulle pareti di legno. Benedita rimase al centro della stanza, immobile come una statua di ebano. La sua altezza era intimidatoria; la sua testa sfiorava quasi le travi del soffitto. Le catene alle caviglie tintinnavano leggermente ogni volta che spostava il peso, un suono che Joaquim odiava, ma che per ora era necessario.

Il vecchio contadino prese uno sgabello di legno tarlato e si sedette di fronte a lei, mantenendo una distanza di sicurezza. Non per paura che lei lo attaccasse, ma per rispetto della sua stazza. “Sai leggere?” chiese lui, la voce roca spezzò il silenzio. Nessuna risposta. Gli occhi di Benedita, scuri e profondi come pozzi senza fondo, lo fissavano senza espressione. “Sai combattere?” insistette. Questa volta, un muscolo della mascella di Benedita si contrasse. Era un segno impercettibile, ma Joaquim, abituato a osservare i cavalli e il tempo, lo notò.

Si alzò lentamente, con i movimenti scricchiolanti di un uomo che ha lavorato troppo e vissuto troppo a lungo. Andò verso una cassa impolverata e ne estrasse un coltello da caccia. La lama brillò alla luce della lampada. Benedita si tese, i pugni enormi si strinsero lungo i fianchi. Ma Joaquim non la minacciò. Invece, girò l’arma e le porse il manico. “Prendilo,” ordinò dolcemente. “Se volessi uccidermi, potresti farlo con una sola mano. Non mi difenderò. Ma ho bisogno che tu mi ascolti.”

Benedita guardò l’arma, poi guardò il vecchio. Per la prima volta dopo anni di schiavitù, vide qualcosa di diverso negli occhi di un padrone: non c’era lussuria, non c’era crudeltà, non c’era pietà. C’era solo disperazione. Lentamente, ignorò il coltello e si sedette sulla paglia, incrociando le gambe. Era un gesto di tregua.

Joaquim sospirò, sentendo il peso degli anni gravare sulle spalle. Iniziò a parlare, e le parole uscirono come un fiume in piena che aveva rotto gli argini. Le raccontò di Vicente, il figlio che aveva perso dieci anni prima. Le descrisse il dolore di seppellire un figlio, il vuoto che aveva lasciato nella casa e nel cuore. Le parlò della moglie morta di crepacuore, e infine, del debito. “Dodici ‘contos de réis’,” sussurrò Joaquim, vergognandosi della cifra. “Devo questa somma al Barone di Araújo. È uno squalo. Se non pago entro il 31 dicembre, si prenderà tutto: la terra, la casa, i ricordi di mio figlio… e anche te.”

Benedita ascoltava. Non capiva tutto di finanza, ma capiva la perdita. Capiva cosa significasse avere qualcuno che ti porta via tutto ciò che sei. “Perché mi dici questo?” la sua voce era profonda, graffiante per il disuso. “Perché c’è una via d’uscita,” disse Joaquim, sporgendosi in avanti, gli occhi febbrili. “Il Barone organizza un torneo. Un combattimento brutale per il divertimento dei ricchi. Il premio è di 100 contos. Nessuno scommetterebbe su di me. Sono vecchio. Ma tu…” La guardò con ammirazione tecnica. “Tu sei una forza della natura, Benedita. Ho visto come hai spezzato le catene al mercato prima che ti fermassero. Ho visto come guardi gli uomini: non con paura, ma con calcolo.”

Joaquim fece la sua proposta, un patto faustiano nato dalla necessità: lui l’avrebbe addestrata, nutrita, e preparata. Se avessero vinto, avrebbero diviso il premio. “Cinquanta contos sono abbastanza per comprare la tua libertà dieci volte,” disse lui. “Potresti andare dove vuoi. Bahia, Rio, forse anche tornare in Africa se lo desideri.”

Benedita rimase in silenzio per un tempo che parve infinito. Guardò le sue mani callose, segnate da cicatrici di frusta e lavoro. Poi guardò Joaquim. “E se perdo?” chiese. “Allora perderemo insieme,” rispose lui con semplicità. “Io diventerò un mendicante, e tu tornerai all’asta. Ma almeno, per una volta, avremo combattuto per noi stessi.” Benedita annuì lentamente. “Va bene, vecchio. Combatterò. Ma ricorda: se mi tradisci, non avrò bisogno di un coltello per strapparti il cuore.”

Capitolo 2: La Forgiatura dell’Acciaio

L’addestramento iniziò all’alba successiva e durò nove mesi estenuanti. Joaquim sapeva che la forza bruta non bastava; nel torneo del Barone avrebbero affrontato assassini, ex soldati e mercenari. Benedita doveva diventare un’arma raffinata.

Costruirono un ring improvvisato in una radura nascosta nella foresta atlantica, lontano dagli occhi indiscreti degli altri schiavi e dei vicini. Joaquim tirò fuori vecchi manuali di pugilato inglese e francese, libri che aveva studiato in gioventù quando sognava una vita diversa. “La forza è inutile senza controllo,” le ripeteva mentre lei colpiva sacchi pieni di sabbia bagnata. “Non colpire con le braccia, colpisci con le gambe, con la schiena, con l’anima.”

I primi mesi furono un inferno. Benedita era abituata a sollevare pesi, non a muoversi con agilità. Joaquim la faceva correre su per le colline con tronchi sulle spalle, la faceva schivare rami appuntiti che lui faceva oscillare, la faceva immergere le mani in secchi di pietrisco per indurire la pelle. C’era frustrazione. C’erano urla. Una volta, esausta e affamata, Benedita ringhiò e spinse Joaquim. Il vecchio volò indietro di tre metri. Invece di arrabbiarsi, lui si rialzò ridendo, sputando terra. “Ecco! Quella è la rabbia che voglio! Ma non usarla contro di me, conservala per loro!”

Col passare delle stagioni, qualcosa cambiò. Non erano più padrone e schiava. Erano diventati maestro e allieva, partner in un crimine segreto. Mangiavano insieme lo stesso stufato di fagioli. Joaquim le leggeva storie la sera, insegnandole le lettere dell’alfabeto tracciandole nella polvere. Benedita imparò a leggere il suo nome. Imparò che il mondo era più grande della piantagione di caffè. A novembre, un mese prima del torneo, Benedita era trasformata. Il grasso e la denutrizione erano spariti, sostituiti da muscoli duri come il ferro. Si muoveva con una grazia felina spaventosa per una donna di quasi due metri. Durante l’ultimo allenamento, Joaquim si mise le protezioni e le disse di colpirlo. Lei esitò. “Colpisci!” urlò lui. Lei tirò un diretto destro. Joaquim lo parò, ma la forza dell’impatto gli fece vibrare le ossa fino ai denti. Il vecchio sorrise, massaggiandosi il braccio dolorante. “Sei pronta. Che Dio abbia pietà di loro, perché tu non ne avrai.”

Capitolo 3: L’Arena della Vanità

Il giorno del torneo, la tenuta del Barone di Araújo sembrava uscita da una fiaba perversa. Carrozze lussuose arrivavano da tutta la provincia, portando signore in abiti di seta e gentiluomini che fumavano sigari importati. C’era musica, vino e cibo in abbondanza. Ma al centro di tutto quel lusso, c’era l’arena: un quadrato di terra battuta circondato da una staccionata robusta, macchiata dal sangue degli anni passati.

Quando Joaquim arrivò con Benedita, un mormorio attraversò la folla. Non indossava abiti da schiava, ma pantaloni di lino da uomo e una camicia bianca semplice, le maniche arrotolate che mostravano avambracci potenti. Era scalza. “Guardate cosa ha portato il vecchio Lacerda!” gridò qualcuno. “Ha portato il suo animale da soma!” Le risate furono crudeli e forti. Il Barone, seduto su un palco rialzato, guardò Joaquim con disprezzo. Accanto a lui c’era sua figlia, Eduarda. Diversa dalle altre donne, Eduarda indossava abiti da amazzone e guardava Benedita con curiosità clinica, non con disgusto.

Joaquim iscrisse Benedita. Il funzionario rise mentre scriveva il nome. “Benedita, proprietà di Joaquim Lacerda. Quota di iscrizione pagata.” Erano gli ultimi soldi di Joaquim. Se avessero perso, non avrebbero avuto nemmeno i soldi per il viaggio di ritorno.

Il torneo iniziò. Il primo avversario fu Il Macellaio di Barra Mansa. Un uomo grasso ma veloce, famoso per stritolare gli avversari. Quando suonò la campana, il Macellaio si lanciò contro Benedita ridendo. “Vieni qui, ragazzina,” la schernì. Benedita non si mosse. Aspettò. Quando l’uomo fu a portata di tiro, lei fece un passo laterale – un movimento così fluido che sembrò svanire – e piantò un pugno nel suo fegato. Il suono fu nauseante. L’aria uscì dai polmoni del Macellaio con un fischio. Cadde in ginocchio, vomitando. Il combattimento era finito in trenta secondi. Il silenzio calò sull’arena. Le risate morirono nelle gole dei nobili. Joaquim, a bordo ring, incrociò le braccia e sorrise.

Il secondo combattimento fu contro Zè “La Vipera”, un capoeirista letale. Era veloce, acrobatico, difficile da colpire. Girava intorno a Benedita, colpendola alle gambe, cercando di farla cadere. Benedita incassò. Sanguinava dallo stinco, ma il suo volto era impassibile. Joaquim gridò: “Il tempo, Benedita! Aspetta il ritmo!” Lei chiuse gli occhi per un istante, ascoltando il respiro dell’avversario. Quando Zè tentò un calcio volante, Benedita non indietreggiò. Avanzò. Lo afferrò per la caviglia a mezz’aria e lo schiantò al suolo come se fosse una bambola di pezza. Poi, con un controllo glaciale, fermò il pugno a un millimetro dal suo naso. Zè si arrese terrorizzato.

La folla iniziò a tifare. Non perché amassero Benedita, ma perché amavano lo spettacolo, e lei era uno spettacolo magnifico.

Capitolo 4: La Danza della Morte e della Rinascita

La finale arrivò al tramonto. Il cielo si tinse di rosso sangue, un presagio adeguato per ciò che stava per accadere. L’ultimo avversario era Tomás, conosciuto come “Il Mangiauomini”. Era un gigante, l’unico più alto di Benedita. Era uno schiavo “riproduttore” di una fattoria vicina, un uomo a cui era stata strappata ogni umanità fin dall’infanzia, addestrato solo per uccidere e obbedire.

Quando si trovarono faccia a faccia al centro dell’arena, sembravano due titani di un’era dimenticata. Tomás non aveva tecnica, aveva solo una furia omicida. Al segnale d’inizio, fu una carneficina. Tomás colpì Benedita con una testata che le spaccò il sopracciglio. Il sangue le inondò l’occhio sinistro. Lei rispose con una serie di ganci al corpo, ma lui sembrava fatto di granito. Per tre round, si scambiarono colpi che avrebbero ucciso un uomo normale. Benedita era stanca. I suoi polmoni bruciavano. Le gambe tremavano. Tomás, alimentato da una follia indotta dalle droghe che i suoi padroni gli davano, sembrava instancabile.

Al quarto round, il disastro. Tomás parò un colpo di Benedita e rispose con un montante devastante. Benedita volò all’indietro, atterrando pesantemente sulla polvere. Il mondo divenne nero. Sentiva il sapore del rame in bocca. Sentiva il conteggio dell’arbitro lontano, come se fosse sott’acqua. “Uno… Due… Tre…”

È finita, pensò Benedita. Ho fallito. Tornerò in catene. La tentazione di rimanere giù, di lasciarsi andare al buio, era dolce.

Poi, una voce tagliò l’oscurità. Non era la folla. Era Joaquim. Il vecchio si era arrampicato sulla staccionata, urlando con le lacrime agli occhi. “Benedita! Non farlo per me! Fallo per te! Sei libera, mi senti? Nella tua testa sei già libera! Alzati e prenditela!”

Libera. Quella parola esplose nella mente di Benedita come una scintilla in una polveriera. Ricordò le notti nel fienile, imparando a scrivere il suo nome. Ricordò la promessa. Al “Nove”, Benedita aprì gli occhi. Ruggì, un suono primordiale che fece tacere gli uccelli sugli alberi, e si rimise in piedi. Tomás, che stava già festeggiando, si girò sorpreso. Vide nei suoi occhi non la sconfitta, ma la morte. Benedita non usò la tecnica di Joaquim questa volta. Usò l’istinto puro. Si lanciò sotto la guardia di Tomás, sopportò un colpo alla spalla che le lussò l’articolazione, e incanalò ogni grammo di dolore, ogni anno di schiavitù, ogni umiliazione in un unico pugno destro diretto alla gola del gigante. Tomás gorgogliò, sgranò gli occhi e crollò all’indietro, svenuto prima ancora di toccare terra.

Il boato della folla fu assordante. Benedita rimase in piedi al centro dell’arena, con un braccio a penzoloni, il viso una maschera di sangue, ma vittoriosa. Joaquim saltò la staccionata e corse da lei, abbracciandola, piangendo sulla sua camicia sporca.

Capitolo 5: L’Alba della Libertà

La premiazione fu surreale. Eduarda de Araújo scese nell’arena. Ignorò il padre furioso e consegnò personalmente il sacco di monete a Joaquim. “Avete offerto uno spettacolo degno di Roma,” disse la nobildonna, guardando Benedita negli occhi. “Se vuoi lavorare per me come guardia del corpo, pagherò il doppio.” Benedita sputò sangue a terra e rispose, con voce ferma: “Non servo più nessuno. Neanche voi.” Eduarda sorrise, un sorriso di rispetto. “Buona fortuna, allora.”

Quella notte, nella sicurezza della loro locanda, Joaquim versò le monete sul tavolo. Cento contos de réis. Una fortuna. Divise il mucchio in due parti uguali, con precisione millimetrica. “Ecco,” disse, spingendo la metà verso Benedita. “Cinquanta contos.” Poi tirò fuori un foglio di carta bollata che aveva preparato giorni prima. Era l’atto di emancipazione (alforria). Lo firmò davanti a lei e glielo porse. “Ora sei libera. Legalmente e spiritualmente.”

Benedita prese il foglio. Le sue mani enormi tremavano più di quando combatteva. “Dove andrai?” chiese Joaquim, sentendo improvvisamente un vuoto nel petto. “A nord,” disse lei. “Cercherò la mia famiglia. E se non li trovo… costruirò una famiglia mia.”

La mattina dopo, all’alba, si salutarono al bivio della strada principale. Joaquim tornò alla sua fattoria, che ora poteva salvare. Benedita prese la strada per Bahia. Non ci furono lunghi addii, né abbracci teatrali. Si guardarono, annuirono, e si voltarono le spalle. Due guerrieri che avevano vinto la guerra e ora andavano verso la pace.

Epilogo: L’Eredità Invisibile

Passarono trent’anni. Joaquim Lacerda visse il resto dei suoi giorni in tranquillità, trasformando la sua fattoria in un luogo prospero dove i lavoratori venivano pagati e trattati con dignità, una rarità per l’epoca. Non si sposò mai più, e non ebbe altri figli.

Quando morì, nel 1887, all’età di 82 anni, il notaio venne a leggere il testamento. Non lasciò la fattoria a parenti lontani o alla chiesa. La lasciò a una fondazione educativa a Salvador de Bahia. Nessuno capì perché, finché non trovarono una lettera ingiallita nel cassetto del suo comodino, datata pochi mesi prima della sua morte. Era scritta con una grafia elegante e decisa.

“Caro Joaquim, La scuola che ho costruito con i nostri 50 contos ora ospita duecento ragazze. Insegniamo loro a leggere, a scrivere e, sì, a combattere. Non devono più temere gli uomini. Non devono più abbassare la testa. Ogni volta che una di loro si diploma, racconto la storia di un vecchio contadino pazzo che comprò un gigante per sette centesimi e le insegnò che valeva più di tutto l’oro del mondo. Sarai sempre nel mio cuore, vecchio amico. Tua, Benedita.”

La leggenda dice che Joaquim morì sorridendo, stringendo quella lettera al petto, finalmente riunito in spirito con Vicente e con la figlia che la vita gli aveva regalato nel modo più inaspettato.

[FINE]

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