Era l’alba del 23 aprile 1821 quando Taranto si svegliò avvolta in una nebbia insolita per quella stagione. Le acque del Marionio riposavano placide, mentre i pescatori preparavano le loro reti con movimenti abitudinari, tramandati di padre in figlio per generazioni.
La città, con le sue antiche mura, che narravano storie di greci, romani e bizantini, sembrava sonnecchiare ancora. Ignara che quel giorno avrebbe segnato l’inizio di un enigma che avrebbe sfidato la ragione stessa. Le campane della cattedrale di San Cataldo rintoccarono sei volte il loro suono propagandosi attraverso vicoli stretti e piazze deserte, mentre il sole iniziava timidamente a dissipare la coltre nebbiosa.
Nel suo studio, al secondo piano di un palazzo signorile affacciato sul canale navigabile, il professor Giorgio Altamura era già sveglio da ore. A 49 anni la sua figura alta e asciutta, incorniciata da capelli brizzolati e da una barba curata con precisione quasi matematica, incuteva rispetto. I suoi occhi, di un blu intenso che contrastava con la carnagione olivastra tipica del meridione italiano, erano fissi sulle pagine di un antico manoscritto fenicio.
Giorgio era rinomato in tutta Italia come uno dei più brillanti studiosi di lingue antiche, capace di decifrare testi che altri consideravano impenetrabili. La sua biblioteca personale era un labirinto di volumi rari, pergamene ingiallite e appunti meticolosi, testimonianza di una vita dedicata allo studio delle parole perdute nel tempo.
Il professor Altamura sospirò massaggiandosi le tempie. Da settimane lavorava alla traduzione di quel testo fenicio, ma alcune espressioni continuavano a sfuggirli come pesci troppo veloci per le sue reti linguistiche. era un uomo di scienza, metodico e razionale che aveva costruito la propria reputazione sulla capacità di risolvere enigmi linguistici attraverso un approccio analitico rigoroso.
Non c’era codice che non potesse decifrare, lingua morta che non potesse risvegliare, o almeno così credeva fino a quel momento. I suoi studi lo avevano portato a parlare correntemente 12 lingue moderne e a leggerne altre 15 antiche, dalle iscrizioni cunei formi mesopotamiche ai geroglifici egizi, dai testi sanscriti ai papiri copti. Un bussare deciso alla porta interruppe i suoi pensieri.
“Avanti”, disse sistemando gli occhiali sul naso aquilino. La porta si aprì rivelando Antonio, il suo assistente di fiducia, un giovane dall’intelligenza vivace che Giorgio considerava quasi un figlio. Il volto di Antonio era teso, gli occhi spalancati in un’espressione che oscillava tra eccitazione e inquietudine.
“Professore, perdoni l’intrusione a quest’ora, ma deve venire immediatamente. È successo qualcosa di straordinario al monastero.” di San Pietro. Giorgio aggrottò le sopracciglia. Il monastero, ormai in rovina dopo secoli di abbandono, era oggetto dei suoi studi archeologici da diversi anni.

Cosa può esserci di tanto urgente in quelle vecchie pietre, Antonio? Un ragazzo, signore, rispose l’assistente. Le parole che si accavallavano nella fretta, un giovane che nessuno ha mai visto prima. È stato trovato questa mattina tra le rovine della biblioteca del monastero. Ma non è questo il punto. È la lingua che parla. professore.
Nessuno riesce a capirla, non è italiano, né greco, né alcun dialetto locale. I frati del convento di San Domenico hanno tentato di comunicare in latino, francese, persino in arabo, ma senza risultato. Il capitano della guardia ha mandato a chiamare lei espressamente. Giorgio si alzò lentamente.
una scintilla di curiosità professionale che si accendeva nei suoi occhi stanchi, una lingua sconosciuta a Taranto, crocevia di culture mediterranee, improbabile, ma certamente intrigante. Mezz’ora più tardi, avvolto nel suo mantello scuro contro l’aria ancora frizzante del mattino, Giorgio percorreva a passo svelto le vie del centro storico.
Il silenzio della prima mattina era stato sostituito dal brulicare di voci e citate. La notizia si era già diffusa come un incendio tra le case di pietra bianca. Un forestiero misterioso che parlava una lingua incomprensibile aveva catalizzato l’attenzione di un’intera città abituata a ospitare mercanti e viaggiatori da ogni angolo del Mediterraneo.
Giunto al monastero, Giorgio trovò un piccolo assembramento di curiosi tenuti a distanza dalle guardie. L’edificio, un tempo maestoso, esempio di architettura romanica pugliese, era ora un guscio vuoto di pietra calcarea corrosa dal tempo e dal vento marino. “Professor Altamura, grazie al cielo è arrivato”, esclamò il capitano Ricci, un uomo robusto dalla divisa impeccabile e dai baffi imponenti. “Questa faccenda sta diventando sempre più strana.
Il ragazzo non tocca cibo né acqua e continua a ripetere suoni che sembrano cantilene. I medici dicono che è in buona salute, ma c’è qualcosa, qualcosa di inquietante in lui. Giorgio annuì gravemente seguendo il capitano attraverso ciò che restava del chiostro fino a una piccola cella che un tempo doveva essere stata la stanza di un monaco e lì lo vide per la prima volta, seduto su un giaciglio di fortuna, illuminato dalla luce del mattino che filtrava attraverso una finestra stretta.
C’era un giovane dall’età difficile da determinare. Poteva avere 16 anni come 20. Il ragazzo aveva capelli neri che gli ricadevano sulle spalle, la pelle olivastra e lineamenti delicati, quasi femminei. Indossava abiti semplici, ma di foggia insolita, che non corrispondevano a nessuna moda corrente. Ma ciò che colpì immediatamente Giorgio furono gli occhi di un verde così chiaro da sembrare quasi trasparenti, con uno sguardo che sembrava attraversare le persone e fissarsi su qualcosa di invisibile oltre le pareti di pietra. Quando notò
l’ingresso di Giorgio, il giovane si interruppe a metà di quella che sembrava una litania e fissò lo studioso con un’intensità che lo fece vacillare. “Mi chiamo Giorgio Altamura”, disse il professore in italiano. Poi ripetè la presentazione in greco, latino, francese, spagnolo e arabo.
Lingue che riteneva potessero essere comprese da chiunque provenisse dalle regioni che si affacciavano sul Mediterraneo. Il ragazzo inclinò leggermente la testa come un uccello curioso, poi aprì le labbra e iniziò a parlare. Il suono che ne uscì fece correre un brivido lungo la schiena di Giorgio.
Era melodioso e fluido, con consonanti morbide e vocali prolungate che si intrecciavano in un ritmo ipnotico. Era semplicemente una lingua che Giorgio non conosceva. Era qualcosa che non aveva mai sentito prima, che sembrava sfidare le strutture linguistiche fondamentali che aveva studiato per tutta la vita.
Non riusciva a identificare nemmeno una radice familiare, un fonema riconoscibile che potesse collegare a una famiglia linguistica nota. Era come se stesse ascoltando una lingua che non doveva esistere. Capitano” disse Giorgio dopo un lungo silenzio, la voce leggermente instabile. “Questo giovane dovrà essere trasferito a casa mia. Ho bisogno di studiarlo, di studiare la sua lingua in un ambiente controllato con tutti i miei riferimenti a portata di mano.
” Il capitano Ricci esitò scrutando il volto solitamente impassibile dello studioso, ora animato da un’emozione che non gli aveva mai visto prima. “È sicuro, professore? Non sappiamo nulla di lui, potrebbe essere pericoloso. Giorgio scosse la testa con decisione. Mi assumo ogni responsabilità.
Quello che abbiamo di fronte, capitano, potrebbe essere la scoperta linguistica più importante del secolo, forse della storia. Mentre pronunciava queste parole, Giorgio non poteva immaginare quanto profondamente quel giovane dagli occhi di Giada avrebbe scosso non solo le sue certezze accademiche, ma la sua stessa comprensione della realtà.
La luce delle candele tremolava sulle pareti dello studio di Giorgio, proiettando ombre danzanti sui volumi impilati in ogni angolo. Era passata una settimana dall’arrivo del misterioso giovane che ora sedeva silenziosamente su una poltrona di fronte alla scrivania del professore. Giorgio aveva deciso di chiamarlo Elia, un nome semplice che il ragazzo sembrava accettare, rispondendo con un leggero cenno del capo quando veniva pronunciato.
Le loro sessioni quotidiane seguivano sempre lo stesso rituale. Giorgio mostrava oggetti comuni, una penna, un libro, un bicchiere d’acqua, pronunciandone il nome in italiano e poi ascoltava attentamente mentre Elia rispondeva nella sua lingua enigmatica. Il professore annotava meticolosamente ogni suono tentando di individuare pattern e strutture, ma la lingua continuava a sfuggirli come sabbia tra le dita.
Non ha alcun senso”, mormorò Giorgio, passandosi una mano tra i capelli ormai spettinati dopo ore di lavoro ininterrotto. I suoi appunti coprivano fogli e fogli di carta, diagrammi e tentativi di trascrizione fonetica che si erano rivelati inadeguati a catturare le sfumature della parlata di Elia.
aveva consultato ogni testo nella sua vasta biblioteca, confrontando suoni e strutture con lingue estinte e oscuri dialetti, ma senza successo. Non era indoeuropeo, né semitico, né apparteneva a qualsiasi altra famiglia linguistica nota. Sembrava esistere in un vuoto filologico impossibile, come se fosse emerso dal nulla, senza evoluzione né contesto storico.
È come se stessi ascoltando un eco di qualcosa che non è mai esistito. Disse ad Antonio che lo assisteva in questo compito titanico. Quella sera Antonio osservava il suo mentore con crescente preoccupazione. Il professore mangiava a malapena, dormiva ancora meno, consumato da un’ossessione che cresceva con ogni giorno che passava. “Maestro, azzardò il giovane assistente.
Forse dovremmo considerare altre possibilità”. Giorgio sollevò lo sguardo, gli occhi arrossati dalla stanchezza. Quali possibilità, Antonio? Che sia un impostore, un pazzo che ha inventato una lingua tutta sua? Ho considerato queste ipotesi, ma non reggono.
La coerenza interna di questa lingua, la complessità della sua struttura grammaticale che sto iniziando a intravedere. No, non è inventata, è reale, antica, strutturata. È solo che non dovrebbe esistere. Il giorno seguente Giorgio decise di cambiare approccio. Portò Elia al monastero abbandonato, sperando che il luogo in cui era stato trovato potesse stimolare qualche rivelazione. Mentre attraversavano le rovine della biblioteca, il comportamento di Elia subì una trasformazione sorprendente.
Il giovane, solitamente calmo e distaccato, divenne improvvisamente animato. si muoveva tra i resti degli scaffali crollati e i frammenti di manoscritti con la familiarità di chi conosce ogni pietra, ogni angolo. Si fermò davanti a una parete parzialmente crollata e posò una mano sulla superficie ruvida della pietra, iniziando a cantare in quella sua lingua misteriosa.
Il suono riecheggiò tra le mura antiche, creando un’acustica inaspettata, come se l’edificio stesso rispondesse alla sua voce. Giorgio osservò la scena con un misto di meraviglia e inquietudine. C’era qualcosa di antico e primordiale in quel canto, qualcosa che sembrava risvegliare e dormienti nelle pietre stesse.
Mentre Elia cantava, il professore notò qualcosa che non aveva visto nelle sue visite precedenti. Dei simboli incisi nella pietra, quasi completamente erosi dal tempo, ma ancora visibili se osservati dalla giusta angolazione. I simboli non corrispondevano ad alcun sistema di scrittura che conoscesse.

Non erano latini, greci, fenici né runici, eppure, in qualche modo inspiegabile, sembravano correlati ai suoni che Elia stava producendo. Antonio chiamò, la voce ridotta a un sussurro reverente, porta i miei strumenti da disegno. Dobbiamo documentare questi simboli immediatamente. Le settimane successive furono un turbino di attività frenetica.
Giorgio aveva allestito un laboratorio improvvisato nella sua casa, dove trascorreva ore a confrontare i calchi dei simboli trovati nel monastero con le trascrizioni fonetiche della lingua di Elia. Lentamente, dolorosamente, cominciò a emergere un sistema. Certi gruppi di simboli sembravano corrispondere a specifici suoni nella parlata del giovane.
Era come decifrare un codice senza chiave, un puzzle con pezzi mancanti, ma Giorgio era determinato. La sua reputazione, il suo orgoglio accademico, la sua stessa identità di studioso erano in gioco. Doveva risolvere questo enigma, doveva dare un nome e una storia a questa lingua impossibile.
Nel frattempo la notizia del misterioso giovane che parlava una lingua sconosciuta aveva superato i confini di Taranto. Lettere giungevano da università di tutta Italia, persino dall’estero. Un linguista dell’Università di Napoli arrivò personalmente, trascorse due giorni ad ascoltare Elia e se ne andò scuotendo la testa, ammettendo la propria sconfitta.
Non è classificabile secondo i nostri parametri attuali confessò a Giorgio prima di partire. È come se stessimo ascoltando qualcosa che appartiene a un altro, non so, a un’altra realtà. Quella frase continuò a risuonare nella mente di Giorgio nei giorni successivi, un’idea eretica che tentava di farsi spazio tra le sue convinzioni razionali.
Una sera, mentre la pioggia batteva contro le finestre del suo studio, Giorgio ebbe una rivelazione. Aveva notato che certi suoni nella lingua di Elia ricorrevano con una cadenza particolare, seguendo quello che sembrava un ritmo matematico. Iniziò a tracciare diagrammi contando le sillabe, misurando gli intervalli tra certi fonemi.
I risultati lo lasciarono senza fiato. Emergeva un pattern che corrispondeva esattamente ai cicli lunari. La lingua sembrava costruita attorno a una struttura astronomica, come se le parole stesse fossero un riflesso dei movimenti celesti. “È impossibile”, mormorò tra sé.
“Una lingua non si sviluppa così, a meno che a meno che non fosse stata deliberatamente progettata, non evoluta naturalmente.” Ma da chi? E per quale scopo? Quella notte Giorgio non dormì. La sua mente era un vortice di ipotesi, ciascuna più incredibile dell’altra. ripensò ai suoi anni di studio, alla sua ferma convinzione che ogni lingua umana seguisse certi principi universali, che potesse essere tracciata lungo un albero evolutivo di discendenze e influenze.
Ma la lingua di Elia sfidava tutto questo. Era come trovare una specie animale che contraddiceva l’intera tassonomia linneana. Mentre l’alba tingeva di rosa il cielo sopra Taranto, Giorgio giunse a una conclusione che lo riempì di un terrore eccitato. Quello che stava studiando poteva essere una lingua prebabelica precedente alla confusione delle lingue narrata nelle Scritture, una lingua primordiale, forse la prima lingua mai parlata dall’umanità.
Ma come poteva un giovane del X secolo conoscerla? I giorni si trasformarono in settimane e l’ossessione di Giorgio cresceva insieme ai suoi progressi. Aveva iniziato a riconoscere certe parole, persino a pronunciare brevi frasi che Elia sembrava comprendere, ma più imparava, più si rendeva conto dell’enormità di ciò che stava affrontando.
La lingua conteneva concetti per i quali l’italiano o qualsiasi altra lingua moderna non aveva equivalenti. conteneva sfumature di tempo che andavano oltre passato, presente e futuro. Distinzioni sottili tra tipi di esistenza che sfidavano le categorie filosofiche occidentali. Era come se fosse stata creata per esprimere realtà che la mente umana moderna non era più in grado di concepire.
Il cambiamento in Giorgio divenne evidente per tutti quelli che lo conoscevano. Il metodico professore, sempre composto e analitico, era ora consumato da un fuoco interiore che si manifestava in lunghi monologhi, notti insonni e momenti di fissità in cui sembrava ascoltare voci udibili solo a lui.
Antonio, fedele malgrado la crescente preoccupazione, rimase al suo fianco documentando ogni scoperta, ogni tentativo di traduzione, ma anche lui cominciava a chiedersi se questa ricerca non stesse portando il suo maestro verso un precipizio mentale. Professore! Azzardò un giorno. Forse dovremmo considerare fonti di consulenza esterne alla scienza linguistica. Giorgio si voltò bruscamente.
Cosa intendi? Antonio deglutì nervosamente. Il vescovo Montini ha espresso interesse per il caso. Forse una prospettiva teologica potrebbe offrire spunti che sfuggono all’analisi scientifica. Giorgio Rise, un suono amaro che riempio la teologia.
Antonio, davvero dopo una vita dedicata alla ricerca razionale mi suggerisci di rivolgermi alle superstizioni, ma quella notte solo nel suo studio, con le pagine dei suoi appunti che sembravano fissarlo accusatoriamente nella penombra, le parole di Antonio tornarono a tormentarlo.
E se ci fosse qualcosa oltre la scienza in questo enigma, se la risposta si trovasse in un dominio che aveva sempre rifiutato di esplorare, guardò Elia, che dormiva pacificamente su un divano nell’angolo. il viso sereno come quello di un bambino. Chi era veramente questo giovane? Da dove veniva e perché parlava una lingua che sembrava più antica del tempo stesso? L’autunno era arrivato a Taranto, tingendo il cielo di un blu più profondo e portando un vento fresco che faceva stormire le foglie dei rari alberi che adornavano la città vecchia.
Erano trascorsi quattro mesi dall’arrivo di Elia e la vita di Giorgio era irriconoscibile. Il suo studio, un tempo santuario di ordine metodico, era ora un caos di pergamene, a punti e diagrammi che ricoprivano ogni superficie disponibile. Le pareti stesse erano state trasformate in una tela per i suoi tentativi di mappare la struttura della lingua misteriosa con simboli e connessioni tracciate con inchiostri di diversi colori. Al centro di questa tempesta di conoscenza, Giorgio si muoveva come un uomo posseduto.
Gli occhi febbrili, la barba trascurata, i vestiti sgualciti dopo notti trascorse alla scrivania, invece che a letto. Credo di aver fatto una scoperta fondamentale” annunciò una mattina ad Antonio, che era appena arrivato con la colazione che sapeva il professore avrebbe altrimenti dimenticato di consumare.
Ho trovato corrispondenze tra la lingua di Elia e iscrizioni rinvenute in luoghi sacri di culture completamente diverse tra loro. Simboli druidi in Britannia, geroglifici in tombe egizie nascoste, persino incisioni in caverne preistoriche in Spagna. È come se frammenti di questa lingua fossero sparsi in tutto il mondo antico, preservati in luoghi di culto e mistero.
Antonio posò il vassoio osservando con preoccupazione il volto e maciato del suo mentore. Maestro, questo significherebbe che la lingua è antecedente alla dispersione dell’umanità primitiva, prima ancora delle prime civiltà conosciute. È scientificamente impossibile. Giorgio fece un gesto impaziente con la mano, come a scacciare un insetto molesto.
possibile secondo i nostri parametri attuali, Antonio, ma la scienza progredisce proprio sfidando ciò che consideriamo impossibile. Si avvicinò a una mappa del mondo antico appesa alla parete, costellata di spilli rossi che indicavano i luoghi delle presunte corrispondenze linguistiche.
Guarda, questo pattern non può essere coincidenza. È come se questa lingua fosse l’origine di tutte, la matrice primordiale da cui ogni forma di comunicazione umana si è evoluta o degenerata. La sua voce si abbassò fino a diventare quasi un sussurro, come se fosse la lingua parlata prima della torre di Babele. Quella stessa sera, mentre il sole tramontava tingendo di rosso le acque del golfo, Giorgio ricevette una visita inaspettata.
Il vescovo Montini, una figura alta e austera avvolta nella sua veste color porpora, si presentò alla porta dello studioso senza preavviso. Professor Altamura disse con voce profonda quando Giorgio lo accolse nel suo studio ingombro. Ho seguito con interesse i suoi studi sul giovane straniero. La Chiesa ha sempre avuto un interesse particolare per i misteri della lingua e della comunicazione.
Giorgio, sorpreso e leggermente sulla difensiva, offrì al prelato un posto a sedere, notando come gli occhi del vescovo si posassero su Elia, che stava silenziosamente disegnando simboli su un foglio di carta in un angolo della stanza. Confesso che non mi aspettavo l’interesse della chiesa in una questione puramente linguistica. Eccellenza! rispose cauto.
Il vescovo sorrise. Un’espressione che non raggiunse i suoi occhi scuri e penetranti. La distinzione tra scienza e fede non è sempre così netta come vorremmo credere, professore, soprattutto quando si tratta di lingue. La nostra tradizione parla di una lingua adamitica, la lingua parlata nell’Eden dalla quale tutte le altre discenderebbero.
Una lingua perfetta in grado di esprimere la vera essenza delle cose, non solo la loro apparenza. fece una pausa studiando la reazione di Giorgio. I mistici medievali credevano che frammenti di questa lingua sopravvivessero in certi testi sacri, in certe preghiere, che pronunciare queste parole potesse aprire porte tramondi. Giorgio sentì un brivido per corrergli la schiena, non del tutto sicuro se fosse eccitazione o timore.
Sta suggerendo che la lingua parlata da Elia potrebbe essere divina in origine. Il vescovo sollevò le sopracciglia. Divina o di altra natura. Non tutto ciò che trascende la comprensione umana è necessariamente benevolo. Professor Altamura, la Chiesa ha sempre messo in guardia contro la ricerca di conoscenze proibite.
Si alzò avvicinandosi lentamente a Elia, che sollevò lo sguardo dal suo disegno, fissando il vescovo con i suoi straordinari occhi verdi. Per un lungo momento i due si osservarono in silenzio come due creature di mondi diversi che si riconoscevano reciprocamente. Sia cauto, professore”, disse infine il vescovo, distogliendo lo sguardo dal giovane. “Ci sono misteri che non siamo destinati a svelare in questa vita”.
Dopo la partenza del vescovo, Giorgio rimase a lungo immobile fissando la porta chiusa. Le parole del prelato avevano risvegliato in lui un disagio che aveva cercato di sopprimere nelle ultime settimane. Nella sua devozione alla ricerca scientifica, aveva trascurato di considerare le implicazioni più ampie di ciò che stava scoprendo.
Se questa lingua era davvero ciò che cominciava a sospettare, un artefatto linguistico impossibile secondo le leggi conosciute dell’evoluzione linguistica, allora cosa significava per la sua comprensione del mondo, per la storia umana come l’aveva sempre concepita, si voltò verso Elia, che era tornato tranquillamente al suo disegno.
Chissai veramente, sussurrò più a se stesso che al giovane. E perché sei qui ora? Quella notte Giorgio fece un sogno straordinariamente vivido. Si trovava nel monastero, ma non nelle rovine che conosceva. Lo vedeva comera stato secoli prima, le mura intatte, il chiostro pieno di vita.
Monaci in abiti antichi si muovevano silenziosamente tra le arcate, le labbra che formavano parole senza suono. Nella biblioteca, seduti a lunghi tavoli di quercia, altri monaci copiavano manoscritti illuminati dalla luce dorata di candele e con suo stupore Giorgio riconosceva i simboli che tracciavano.
Erano gli stessi che aveva trovato incisi nelle pietre, gli stessi che corrispondevano alla lingua di Elia. Nel sogno un monaco anziano alzava lo sguardo e lo fissava come se potesse vederlo attraverso i secoli. Custodi diceva il monaco in quella strana lingua che nel sogno Giorgio comprendeva perfettamente. Siamo stati i custodi. Giorgio si svegliò di soprassalto, il cuore che batteva furiosamente.
Le prime luci dell’alba filtravano attraverso le tende, illuminando debolmente la stanza. Custodi! Ripetè a voce alta, assaporando la parola come se potesse contenere la chiave di tutto l’enigma. Si alzò, indossò una vestaglia e si diresse verso il suo studio, dove Elia dormiva su un divano improvvisato a letto.
Il giovane era sveglio, seduto con le ginocchia raccolte al petto e guardava fuori dalla finestra con un’espressione distruggente nostalgia. Quando Giorgio entrò, si voltò verso di lui e parlò. Una lunga frase melodiosa nella sua lingua misteriosa. Per la prima volta Giorgio ebbe l’impressione di cogliere non solo suoni, ma significato.
Non era una comprensione intellettuale, ma qualcosa di più profondo, come se le parole di Elia risuonassero direttamente con qualcosa sepolto nella sua anima. I monaci disse Giorgio lentamente cercando di articolare l’intuizione che stava formandosi nella sua mente. Erano custodi di questa lingua, non è vero? La preservavano, la tramandavano in segreto.
Elia inclinò la testa, un gesto che Giorgio aveva imparato a interpretare come affermativo. Ma perché? Perché preservare una lingua che nessuno parla, che nessuno può comprendere? Elia si alzò e si avvicinò alla scrivania, dove giaceva aperto uno dei numerosi taccuini di Giorgio. Prese una penna e con mano sicura, tracciò una serie di simboli sulla pagina.
Non erano i simboli che Giorgio aveva documentato dal monastero. Erano qualcosa di più antico, più essenziale. Sembravano pulsare sulla pagina con una vita propria. “Potere”, disse Elia improvvisamente in un italiano perfetto, la prima parola che pronunciava in quella lingua da quando era apparso. Giorgio indietreggiò scioccato.
“Tu Tu puoi parlare italiano?” Elia sorrise. Un sorriso triste che sembrava contenere secoli di solitudine. “Posso imparare qualsiasi lingua umana in pochi giorni di esposizione?” rispose in un italiano fluido, ma con un accento impossibile da collocare. “Ma preferisco non farlo.
Le vostre lingue sono limitate, frammentate, non possono esprimere ciò che devo dire.” si avvicinò alla finestra guardando la città che si svegliava sotto il sole nascente. La lingua che studio è antica quanto il pensiero stesso. È stata donata agli umani quando il mondo era giovane per permettere loro di parlare con le stelle, con gli elementi, con le forze che modellano la realtà.
Per questo i monaci la preservavano non come curiosità archeologica, ma come strumento di comunione con il divino. Giorgio sentì la testa girare, come se si trovasse sull’orlo, di un abisso di conoscenza troppo vasto per essere contenuto dalla mente umana. “Chi sei tu, veramente?” chiese. La voce ridotta a un sussurro. Elia si voltò.
I suoi occhi verdi sembravano attraversare Giorgio per fissarsi su qualcosa di molto lontano. “Sono un messaggero”, disse semplicemente, “Un ponte tramondi.” Sono stato inviato per ricordare agli umani che esistono realtà oltre quella visibile che la vostra scienza può misurare e catalogare. Fece una pausa, come se cercasse parole adeguate in una lingua inadeguata.
Il tempo si sta esaurendo, professor Altamura. Le antiche barriere si stanno indebolendo. Il mondo ha bisogno di chi ricordi la lingua originaria, di chi possa pronunciare le parole che mantengono l’equilibrio. Il resto della giornata trascorse in uno stato di irrealtà per Giorgio. La rivelazione di Elia aveva scosso le fondamenta stesse della sua visione del mondo.
Tutto ciò in cui aveva creduto, l’ordine razionale dell’universo, la progressione lineare della storia umana, persino la natura della realtà stessa, sembrava ora incerto, costruito su sabbia, invece che su roccia solida, si ritirò nel suo studio, rifiutando visite, persino quelle di Antonio.
Aveva bisogno di pensare, di riconciliare ciò che aveva appreso con tutto ciò che aveva sempre saputo o creduto di sapere. Fuori la città continuava la sua vita quotidiana, ignara del dramma cosmico che si stava svolgendo tra le mura di quella casa signorile affacciata sul canale.
Al crepuscolo Giorgio emerse finalmente dal suo studio e trovò Elia nel piccolo giardino sul retro della casa, seduto sotto un vecchio ulivo, gli occhi chiusi, le labbra che si muovevano in una preghiera o un canto silenzioso. sembrava perfettamente in pace, in armonia con l’universo, in un modo che Giorgio non aveva mai sperimentato. “Ho preso una decisione”, annunciò lo studioso avvicinandosi.
“Devo conoscere la verità completa. Se questa lingua è ciò che dici, uno strumento di comunione con il divino, allora devo impararla, non per curiosità accademica, ma per comprendere ciò che stai cercando di comunicare.” Elia aprì gli occhi guardando Giorgio con un’espressione che mischiava speranza e preoccupazione.
L’apprendimento di questa lingua cambierà per sempre la tua percezione della realtà”, avvertì. “Una volta che avrai visto oltre il velo, non potrai mai più tornare all’ignoranza”. Giorgio sorrise, un sorriso stanco ma determinato. La verità, qualunque essa sia, è sempre preferibile all’illusione. Sono disposto a correre il rischio.
Elia annuì lentamente, poi si alzò con un movimento fluido che sembrava quasi danzante. Allora cominceremo domani all’alba disse. Ma prima c’è qualcosa che devi vedere condusse Giorgio attraverso il giardino verso un angolo ombreggiato dove cresceva un antico roseto. Tra le rose Elia si fermò e tracciò un simbolo nell’aria con la mano.
Per un istante l’aria sembrò tremare, come il calore che si alza dall’asfalto in una giornata estiva. Poi, davanti agli occhi increduli di Giorgio apparve una porta dove prima c’era solo un muro di pietra coperto d’Edera. Non era una porta fisica, ma un’apertura nell’aria stessa, attraverso la quale si intravedeva un paesaggio impossibile, montagne fluttuanti in un cielo color ametista, attraversate da creature alate di indescrivibile bellezza. “Questo è il mio mondo”, disse Elia dolcemente.
“Il mondo che la lingua primordiale permette di percepire”. Il mondo che una volta era accessibile anche agli umani prima che dimenticassero le parole per chiamarlo. L’alba del giorno seguente trovò Giorgio e Elia seduti faccia a faccia nel centro dello studio, ora sgombrato da libri e carte per creare uno spazio aperto.
Tra loro, sul pavimento di legno lucido, Elia aveva tracciato un cerchio di simboli con gesso bianco, gli stessi simboli che Giorgio aveva trovato nel monastero, ma disposti in un ordine che sembrava seguire il movimento delle costellazioni. “La lingua originaria non è solo un mezzo di comunicazione”, spiegò Elia con voce calma.
è un modo di percepire e interagire con la realtà a un livello fondamentale. Ogni suono, ogni sillaba è una vibrazione che risuona con la natura essenziale delle cose. Prese le mani di Giorgio nelle sue, erano sorprendentemente calde e sembravano trasmettere una sottile energia elettrica e le posizionò su due punti opposti del cerchio. Ora chiudi gli occhi e ascolta. Non cercare di capire con la mente, lascia che le parole ti attraversino.
Elia iniziò a cantare in quella lingua melodiosa e fluida che aveva affascinato Giorgio fin dal primo momento. Ma questa volta c’era qualcosa di diverso. I suoni sembravano riempire la stanza, riverberare dalle pareti, persino dal corpo di Giorgio stesso.
Era come se ogni cellula del suo essere risuonasse in risposta, come una corda di violino che vibra in simpatia con una nota suonata nelle vicinanze. Immagini iniziarono a formarsi nella mente di Giorgio. Non ricordi o fantasie, ma visioni di luoghi che non aveva mai visto, tempi che non aveva mai conosciuto. Vide la terra com’era all’alba della civiltà umana.
vide i primi uomini e donne comunicare non solo tra loro, ma con gli elementi, con gli animali, con forze che ora giacevano dormienti sotto strati di razionalità e scetticismo. Le ore passarono come minuti, mentre Giorgio si immergeva in questa esperienza trascendente. Quando finalmente Elia mise di cantare e Giorgio aprì gli occhi, la stanza era immersa nella luce dorata del tramonto.
“Cosa? Cosa mi è successo?” chiese con voce Roca, sentendosi come se si fosse svegliato da un sogno profondo e significativo che già cominciava a svanire dalla memoria cosciente. Elia sorrise gentilmente: “Hai sperimentato lo stato di comunione che la lingua originaria permette. Il tuo spirito ha viaggiato oltre i confini della percezione ordinaria.
” si alzò con grazia, aiutando Giorgio a fare lo stesso. È solo l’inizio. Con il tempo e la pratica imparerai non solo a percepire, ma a partecipare attivamente a queste realtà. Nei giorni e nelle settimane che seguirono, Giorgio si dedicò con fervore all’apprendimento di quella che ora chiamava la lingua primordiale.
Era un processo che sfidava tutti i metodi linguistici convenzionali. Non si trattava di memorizzare vocaboli e regole grammaticali, ma di riprogrammare la percezione stessa, di risvegliare facoltà sensoriali e cognitive che giacevano dormienti nel profondo della psiche umana. Elia era un insegnante paziente ma esigente che guidava Giorgio attraverso esercizi di meditazione, visualizzazione e vocalizzazione che spesso lo lasciavano esausto ma esaltato. “Ogni parola in questa lingua è un atto di creazione”, spiegò Elia durante una sessione. “Pronunciare il
nome vero di una cosa significa entrare in comunione con la sua essenza, influenzare il suo essere a livello quantico, direbbe la vostra scienza futura”. Antonio osservava questi sviluppi con una miscela di fascino e preoccupazione. Il suo maestro, un tempo l’epitome della razionalità scientifica, sembrava ora perdersi in pratiche che sfioravano il misticismo.
“Professore”, azzardò un pomeriggio trovando Giorgio intento a tracciare complessi diagrammi su una lavagna. “Non teme che questa ricerca possa compromettere la sua reputazione accademica”. I suoi colleghi cominciano a fare domande, a esprimere preoccupazione. Giorgio si voltò, un sorriso sereno sul volto che Antonio trovò quasi più inquietante della precedente ossessione febrile.
La reputazione, Antonio, cosa significa di fronte alla verità? Ho trascorso la mia vita studiando i frammenti, le ombre proiettate sul muro della caverna platonica. Ora sto imparando a voltarmi e guardare direttamente la fonte della luce.
Come potrei preoccuparmi di cosa pensano coloro che continuano a fissare le ombre? Una mattina, mentre Giorgio e Elia lavoravano insieme nello studio, un messaggero ansimante arrivò con una lettera urgente. Era del vescovo Montini e il contenuto era allarmante. Voci sulla natura delle ricerche di Giorgio avevano raggiunto Roma e rappresentanti del Sant’Uuffizio erano in viaggio verso Taranto per indagare su possibili eresie o pratiche occulte.
Il vescovo avvertiva a Giorgio di interrompere immediatamente qualsiasi attività che potesse essere interpretata come contraria alla dottrina cattolica e di prepararsi a consegnare tutti i suoi appunti per un esame ecclesiastico. “Saremo nei guai”, chiese Antonio pallido in volto dopo aver letto la lettera.
Elia, che raramente mostrava emozioni forti, appariva ora genuinamente preoccupato. “Il tempo scorre più velocemente di quanto avessi previsto”, mormorò. “Dobbiamo affrettarci”. La conoscenza deve essere preservata. Quella notte, mentre la città dormiva sotto un cielo velato di nubi, Giorgio e Elia lavorarono febrilmente alla luce di candele che proiettavano ombre danzanti sulle pareti dello studio.
Non stavano preparando una difesa contro le accuse ecclesiastiche, come Antonio aveva suggerito. Stavano invece completando un manoscritto in cui Giorgio documentava tutto ciò che aveva appreso sulla lingua primordiale, non come analisi linguistica, ma come guida pratica per chi avrebbe potuto continuare la ricerca in futuro.
Non potrò completare il mio apprendimento disse Giorgio con una calma che sorprese lui stesso. Ma posso lasciare un sentiero per coloro che verranno dopo di me, segnali che li guideranno se saranno pronti a vedere. Elia annuì gli occhi luminosi nel buio. Ci saranno sempre cercatori. La conoscenza trova sempre la sua strada verso chi è pronto a riceverla. All’alba il manoscritto era completo.
Pagine e pagine di simboli, diagrammi, istruzioni, in un italiano volutamente arcaico e allusivo che solo un vero studioso avrebbe potuto decifrare completamente. Giorgio lo sigillò in un tubo di metallo che Elia benedisse con parole nella lingua primordiale, parole che sembravano far vibrare l’aria stessa. Ora dobbiamo nasconderlo”, disse Giorgio, “ino in un luogo dove potrà rimanere indisturbato per decenni, forse secoli, fino a quando il mondo sarà pronto.
” Si guardarono negli occhi una comprensione silenziosa che passava tra loro. “Il monastero”, dissero all’unisono. Il cerchio si sarebbe chiuso dove era iniziato, tra quelle rovine antiche dove Elia era stato trovato, dove i monaci avevano un tempo preservato la conoscenza della lingua originaria, prima che il sole si alzasse completamente.
Giorgio, Elia e Antonio, che aveva insistito per accompagnarli fedele fino alla fine, si diessero verso il monastero abbandonato. La città era ancora avvolta nel sonno, le strade deserte tranne che per qualche pescatore che si preparava per la giornata di lavoro.
Giunti al monastero, Elia li guidò sicuro attraverso le rovine fino a una parte della biblioteca che Giorgio non aveva mai esplorato completamente. Una sezione di muro che sembrava solida, ma che sotto la pressione delle mani di Elia, rivelò un passaggio nascosto verso una piccola camera sotterranea. I monaci costruivano sempre luoghi segreti per i loro tesori più preziosi”, spiegò Antonio.
Affascinato nonostante la tensione del momento. “Questa deve essere stata la loro camera del tesoro.” La stanza era piccola ma asciutta, protetta dall’umidità da qualche antica tecnica di costruzione. Sugli scaffali di pietra che la circondavano, Giorgio notò con stupore altri tubi metallici simili a quello che portava.
Evidentemente non era il primo a nascondere qui la sua conoscenza. Elia prese il tubo dalle mani di Giorgio e lo posizionò con cura su uno scaffale, mormorando parole che sembravano benedizioni o incantesimi di protezione. Ora è al sicuro”, disse, “Dormirà qui fino a quando non verrà il momento giusto”.
Giorgio sentì una profonda pace scendere su di lui, come se un peso enorme fosse stato sollevato dalle sue spalle. Qualunque cosa sarebbe accaduta da quel momento in poi, la conoscenza era stata preservata. Il suo compito era compiuto. Quando emersero dalla camera segreta, trovarono il cielo schiarito e il sole già alto. Era tempo di affrontare le conseguenze delle loro azioni.
“Cosa farai ora?”, chiese Antonio a Elia, mentre si preparavano a lasciare il monastero. Il giovane, dagli occhi verdi guardò verso l’orizzonte, verso il mare che brillava sotto il sole mattutino. “Il mio tempo qui è quasi concluso”, rispose con una nota di malinconia. “Ho fatto ciò per cui sono stato mandato. Ho trovato un custode degno della conoscenza.
Ho assicurato che la lingua primordiale non venga dimenticata in questa epoca di razionalità e scetticismo. Si voltò verso Giorgio, gli occhi che sembravano riflettere la luce in modo non del tutto umano. E tu, professor Altamura, cosa farai quando verrà chiesto conto delle tue ricerche? Giorgio sorrise, un sorriso sereno che parlava di una saggezza appena acquisita ma profondamente radicata.
dirò loro la verità, o almeno quella parte di verità che sono in grado di comprendere, che ho studiato un fenomeno linguistico raro e affascinante, ma che non ho trovato nulla di contrario alla fede o alla dottrina, che il mistero del giovane straniero resta irrisolto secondo i parametri della scienza, si fermò guardando le rovine del monastero che ora gli apparivano in una luce completamente nuova, non più semplici pietre, ma testimoni di una continuità di conoscenza che attraversava i secoli.
Ma dentro di me saprò che esistono realtà oltre quelle misurabili, verità che trascendono sia la scienza che la religione come le conosciamo. E questa consapevolezza cambierà il modo in cui vivo il resto della mia vita, il modo in cui vedo il mondo e interagisco con esso.
Il pomeriggio vide l’arrivo a Taranto dei rappresentanti del Sant’Uuffizio, tre prelati dall’aspetto austero, che si presentarono alla porta di Giorgio con l’autorità di chi è abituato a essere obbedito senza domande. Per tre giorni interrogarono Giorgio, esaminarono i suoi appunti ufficiali, accuratamente preparati per non rivelare nulla della vera natura delle sue scoperte.
parlarono con Antonio e altri testimoni. Elia, come per un tacito accordo, si era reso irreperibile durante queste indagini, svanito come nebbia al sole dalla casa di Giorgio. Alla fine del terzo giorno i prelati se ne andarono con espressioni di frustrazione malcelata.
Non avevano trovato prove di eresia o pratiche occulte, solo le ricerche eccentriche, ma fondamentalmente innocue, di uno studioso rispettato. Quella sera Giorgio trovò Elia ad aspettarlo nel giardino sotto l’ulivo che sembrava essersi trasformato nel loro luogo di incontro preferito. “Se ne sono andati”, disse Giorgio, sedendosi accanto al giovane sulla panchina di pietra. “Non hanno trovato nulla che potesse condannarmi.
” Elia annuì un sorriso lieve sulle labbra. Non potevano vedere ciò che non erano pronti a comprendere. La verità più profonda è sempre nascosta in piena vista. Rimasero in silenzio per un lungo momento, godendosi la pace della sera, il canto dei grilli e il profumo dei gelsomini che fiorivano lungo il muro del giardino.
“Devo andarmene”, disse infine Elia, la voce appena sopra un sussurro. “Il mio compito qui è concluso e sono chiamato altrove”. Giorgio aveva saputo fin dall’inizio che questo momento sarebbe arrivato, eppure sentì una fitta di dolore al pensiero della partenza di Elia.
In quei pochi mesi il misterioso giovane era diventato più di un oggetto di studio o persino di un insegnante. Era diventato un amico, forse l’unico che avesse mai veramente capito Giorgio a un livello profondo. “Tornerai mai?” chiese cercando di mantenere la voce ferma. Elia si voltò verso di lui, gli straordinari occhi verdi che sembravano contenere galassie.
Non in questa forma, non in questa vita rispose con gentilezza. Ma ciò che ho condiviso con te continuerà a vivere, a crescere e a evolvere nella tua anima e forse in un altro tempo, in un’altra forma ci incontreremo di nuovo. Si alzò indicando a Giorgio di fare lo stesso. Prima di andare ho un ultimo dono per te.
prese le mani di Giorgio nelle sue e pronunciò una singola parola nella lingua primordiale, una parola che sembrò risuonare non solo nell’aria, ma dentro Giorgio stesso, come una campana che suona nelle profondità dell’oceano. “Questo è il tuo nome vero”, spiegò Elia, “non quello che ti è stato dato alla nascita, ma quello che riflette la tua vera essenza.
Conoscendolo avrai sempre accesso alla lingua primordiale, anche senza praticarla. Sarà come una chiave che porti sempre con te. Giorgio sentì la parola risuonare dentro di sé, installarsi in un luogo segreto del cuore dove nessuno avrebbe potuto trovarla o portarla via.
Era un dono inestimabile, un legame permanente con quella conoscenza trascendente che aveva solo iniziato a esplorare. Alba del giorno seguente Giorgio stava in piedi sulla terrazza della sua casa, osservando il sole nascente tingere d’oro le acque del golfo di Taranto. si sentiva stranamente leggero, come se una parte del peso che aveva portato per tutta la vita, il peso dello scetticismo, del dubbio, della necessità di spiegare e catalogare ogni cosa si fosse sollevato. La notte precedente, dopo avergli dato il suo nome vero, Elia aveva semplicemente abbracciato Giorgio
e poi si era allontanato camminando verso il fondo del giardino dove l’aria aveva tremato e si era aperta, rivelando per un istante quel paesaggio impossibile di montagne fluttuanti in un cielo color ametista. Poi Elia era passato attraverso quella porta tra mondi e l’aria si era richiusa dietro di lui, tornando solida e impenetrabile come sempre.
Antonio lo trovò ancora lì ore dopo, perso nei pensieri mentre osservava la città che si risvegliava sotto di lui. “Maestro” disse con tono esitante. Elia se n’è andato, vero? Giorgio si voltò verso il suo fedele assistente, notando per la prima volta quanto fosse cresciuto negli ultimi mesi, non fisicamente, ma in saggezza e comprensione. Sì, Antonio, il suo compito qui è concluso. L’assistente annuì lentamente, come se stesse ancora elaborando tutto ciò che era accaduto.
E noi qual è il nostro compito ora? Giorgio sorrise, un sorriso che conteneva sia saggezza che mistero. Il nostro compito è vivere, Antonio, vivere con la consapevolezza che esistono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la nostra filosofia, come direbbe quel drammaturgo inglese.
Continuare i nostri studi, le nostre ricerche, ma con occhi nuovi, con una mente aperta a possibilità che la scienza da sola non può abbracciare. Nei mesi e anni che seguirono, Giorgio Altamura tornò apparentemente alla sua vita accademica normale. riprese le sue lezioni all’università, pubblicò articoli su temi linguistici convenzionali, mantenne la sua reputazione di studioso rispettato, ma chi lo conosceva bene notava sottili cambiamenti, una serenità nuova, un’apertura verso idee che un tempo avrebbe liquidato come superstizione, un modo di parlare che occasionalmente sembrava toccare verità
più profonde di quelle espresse dalle parole stesse. Le sue lezioni attiravano studenti da tutta Italia, non solo per l’erudizione che offrivano, ma per qualcosa di più ineffabile, una saggezza che andava oltre l’accumulo di conoscenza, una comprensione che sembrava unire scienza e spiritualità in una sintesi armoniosa.
E talvolta nelle notti di luna piena i vicini riferivano di aver udito strani suoni provenienti dalla casa del professore, non parole in alcuna lingua conosciuta, ma una sorta di canto melodioso che sembrava risuonare con il vento, con le stelle, con il battito stesso della terra.
In quei momenti, se qualcuno avesse osato avvicinarsi abbastanza alla finestra dello studio, avrebbe potuto vedere il professor Altamura seduto al centro di un cerchio di simboli tracciati con gesso bianco sul pavimento, gli occhi chiusi, le labbra che formavano parole di una lingua che non avrebbe dovuto esistere, la lingua primordiale, la lingua che una volta aveva unito l’umanità al divino e che ora, grazie a uno strano giovane dagli occhi verdi e a un erudito coraggioso abbastanza abbracciare il mistero, continuava a vivere in un mondo che l’aveva dimenticata. Gli anni passarono come
pagine di un libro antico sfogliate dal vento e Taranto vide il professor Giorgio Altamura trasformarsi da rispettato linguista a figura quasi leggendaria. Nel suo studio sempre più studenti selezionati venivano accolti non solo per apprendere le lingue antiche, ma per ascoltare insegnamenti che sfioravano il misticismo senza mai abbandonare del tutto il rigore accademico.
I suoi occhi, ora circondati da rughe profonde come antichi geroglifici, conservavano quello sguardo penetrante che sembrava vedere oltre il velo della realtà ordinaria. Raramente parlava di Elia direttamente, ma i suoi insegnamenti erano permeati da quella saggezza che solo chi ha contemplato l’ineffabile può trasmettere.
Il manoscritto nascosto nelle profondità del monastero rimase indisturbato per decenni, protetto dalle parole di potere che Elia aveva pronunciato su di esso. Solo nel 1897, quando un terremoto scosse la regione, parte del pavimento della camera segreta cedette, rivelando il nascondiglio a un gruppo di archeologi che stavano esaminando le rovine. Le autorità ecclesiastiche intervennero rapidamente, confiscando i documenti prima che potessero essere studiati approfonditamente.
Eppure, per uno strano caso del destino, o forse per un disegno più grande, copie di alcune pagine erano già state realizzate da un giovane assistente, un pronipote di Antonio, che portava nel sangue la stessa curiosità e devozione del suo antenato. Nel suo 70o compleanno Giorgio ricevette un regalo inaspettato, una lettera sigillata con cera verde smeraldo consegnata da un messaggero sconosciuto che si dileguò prima di poter essere interrogato.
All’interno poche righe scritte in quella lingua che nessuno avrebbe dovuto conoscere, seguite da una traduzione in italiano. Le parole seminano, le menti germogliano, la conoscenza fiorisce attraverso i secoli. Il tuo lavoro continua in mani che non conosci ancora. Non c’era firma, ma Giorgio non ne aveva bisogno.
Quella notte, seduto nel suo giardino sotto l’ulivo ormai possente, pronunciò per la prima volta dopo anni il nome vero che gli era stato donato e le stelle sembrarono brillare con maggiore intensità. La comunità accademica continuò a guardare Giorgio con un misto di rispetto e sospetto. I suoi contributi alla linguistica classica rimanevano impeccabili, ma le allusioni, sempre più frequenti a connessioni tra linguaggio e realtà trascendente nelle sue pubblicazioni tardive venivano accolte con scetticismo. Alcuni lo consideravano un genio incompreso, altri un brillante studioso, la cui mente era stata
offuscata dall’età o da qualche esperienza traumatica. Solo un piccolo circolo di studiosi, filosofi e cercatori spirituali comprendeva veramente il valore delle sue intuizioni, formando intorno a lui una sorta di scuola non ufficiale che si riuniva periodicamente per discussioni che si protraevano fino all’alba.
Con l’avanzare dell’età, Giorgio cominciò a dedicare più tempo alla scrittura di un’opera che considerava il suo lascito spirituale, echi della lingua primordiale, un trattato che mescolava sapientemente linguistica, filosofia, misticismo e osservazioni apparentemente innocue che, lette con la giusta chiave interpretativa, costituivano un manuale pratico per risvegliare quella facoltà dormiente nell’anima umana.
Il libro venne pubblicato postumo e, sebbene inizialmente ignorato dagli ambienti accademici mainstream, trovò lentamente la sua strada nelle mani di coloro che erano pronti a riceverne il messaggio, proprio come Elia aveva predetto. Fu nel suo 80º anno che Giorgio ebbe la visione più straordinaria della sua vita dopo l’incontro con Elia.
Mentre meditava nel suo studio, pronunciando silenziosamente parole della lingua primordiale, l’aria davanti a lui tremò e si aprì non su un paesaggio alieno questa volta, ma su una biblioteca immensa che sembrava estendersi all’infinito in ogni direzione. Figure in abiti di ogni epoca storica si muovevano silenziosamente tra scaffali che contenevano non solo libri, ma oggetti luminosi di forme indescrivibili.
L’archivio universale sussurrò una voce familiare e Giorgio vide Elia, immutato nel tempo, che lo osservava dall’altra parte della soglia con un sorriso. Un giorno anche tu camminerai tra questi scaffali come custode della conoscenza. La visione durò solo un istante, ma lasciò in Giorgio una certezza profonda: la morte non sarebbe stata una fine, ma una trasformazione.
I diari privati di Giorgio, scoperti solo decenni dopo la sua morte, rivelarono come avesse utilizzato la sua conoscenza della lingua primordiale, non per acquisire potere personale, ma per portare guarigione e conforto. in pagine scritte con grafia tremante, raccontava di notti trascorse al capezzale di bambini malati, pronunciando antiche parole di guarigione, di incontri con persone affrante dal dolore, alle quali aveva offerto non facili consolazioni, ma una momentanea percezione dell’armonia cosmica che relativizzava la sofferenza individuale di momenti di comunione con
la natura quando parlava con gli elementi e riceveva risposte che nessun orecchio umano avrebbe potuto udire. Questi racconti, troppo straordinari per essere creduti dalla maggioranza, trovarono risonanza in coloro che, attraverso esperienze proprie, avevano intravisto la possibilità di realtà alternative.
Nel 1903 un giovane linguista spagnolo di nome Raffael Montero giunse a Taranto, attratto dalle teorie poco ortodosse dell’ormai leggendario professor Altamura. Giorgio, allora ottantane, ma ancora lucido, lo accolse come se lo avesse atteso da tempo. Per tre mesi i due trascorsero ore ogni giorno in conversazioni che spaziavano dalla filologia comparata alla metafisica, dalla storia antica alle speculazioni sul futuro dell’umanità. Prima di ripartire, Raffael ricevette in dono un piccolo volume rilegato in pelle verde, le cui
pagine sembravano brillare di luce propria quando venivano aperte. Non leggerlo finché non sarai tornato in Spagna furono le istruzioni di Giorgio. E poi solo quando il sogno ti avrà visitato tre volte. Il giovane mantenne la promessa diventando anni dopo il fondatore di un istituto di linguistica trascendentale che sotto la facciata di rispettabilità accademica continuò l’opera iniziata da Giorgio e prima di lui dai monaci custodi.
Giorgio Altamura si spense serenamente nel sonno il 23 aprile del 1905. Esattamente 84 anni dopo l’apparizione di Elia. Chi lo vegliava nelle ultime ore riferì di aver udito il vecchio professore conversare animatamente in una lingua melodiosa, con un interlocutore invisibile, il volto illuminato da una gioia che sembrava troppo grande per essere contenuta dal suo corpo ormai fragile.
Al momento del trapasso, una brezza inspiegabile attraversò la stanza chiusa, facendo volteggiare fogli coperti di simboli antichi, mentre un profumo di fiori sconosciuti riempiva l’aria. Sul comodino, accanto al letto, fu trovato un piccolo oggetto che nessuno separe, un cristallo dalla forma impossibile che sembrava cambiare colore a seconda dell’angolazione da cui lo si guardava.
La tomba di Giorgio nel cimitero di Taranto divenne meta di pellegrinaggio discreto per cercatori di verità provenienti da ogni parte del mondo. Sulla semplice lapide di marmo, sotto le date di nascita e morte, era incisa una frase che i più interpretavano come un’eccentrica citazione letteraria, ma che gli iniziati riconoscevano come una trascrizione fonetica approssimativa di una frase nella lingua primordiale.
La parola è ponte tramondi, il nome è chiave dell’essere, il silenzio è dimora della verità ultima. E si diceva che nelle notti di luna piena, quando il vento soffiava dal mare, portando con sé echi di civiltà dimenticate, chi si fermava in silenziosa meditazione presso quella tomba potesse udire un canto sottile, come di voci che tessevano e ritessevano il tessuto stesso della realtà attraverso parole che non avrebbero dovuto esistere, ma che grazie a Giorgio Altamura e a uno strano giovane dagli occhi verdi, continuavano a vibrare nel cuore nascosto. del mondo.